Catanzaro

Relazione

 
Relazione italiana della prof.ssa Ida Angela Nicotra – Catanzaro – 26/05/2017

La trasparenza in materia ambientale: dalla Convenzione di Aarhus al freedom of information act del decreto legislativo n. 97 del 2016.

di Ida Angela Nicotra

Componente Autorità Nazionale Anticorruzione

Professore Ordinario di Diritto Costituzionale Università di Catania

Sommario: 1. Premessa 2. La Convenzione di Aarhus: diritto alla trasparenza e partecipazione del pubblico ai processi decisionali sulle tematiche ambientali. 3. Il diritto all’informazione ambientale nella Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003 n. 4. 4. Il freedom of information act in materia ambientale secondo il d.lgs. n. 195 del 2005. 5. Pubblicazione e accesso alle informazioni ambientali secondo il nuovo paradigma contenuto nell’art. 40 del d.lgs. n.97 del 2016: le nuove prospettive del diritto di conoscere l’ambiente.

Premessa

La Convenzione di Aarhus costituisce il documento normativo di maggiore impatto prodotto dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite tenutasi a Stoccolma del 1972. La Conferenza sull’Ambiente umano vide il riconoscimento, per la prima volta, del principio dello sviluppo sostenibile. Lo sviluppo sostenibile risponde alle esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie. Così, una rinnovata visione del rapporto con la natura si basa sulla necessità di conferire espressa tutela alle prossime generazioni alla luce di una nuova sensibilità che si lega indissolubilmente alle tematiche ambientali.

Il principio dello sviluppo sostenibile si basa sulla regola dell’equità declinata sia in senso intergenerazionale che intragenerazionale[1]. Tale obiettivo viene meglio definito in occasione della Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 in cui si sottolinea che il diritto al progresso deve essere esercitato compatibilmente con uno sviluppo sostenibile e con le esigenze delle generazioni presenti senza trascurare quelle che verranno. Un responsabilità, dunque, nei confronti delle risorse ambientali che vede coinvolti non più i singoli Stati separatamente, l’uno indipendentemente dalle azioni dell’altro, ma che pretende l’impegno per la realizzazione di un’azione globale e sinergica. Il d.lgs. n.4 del 2008 introduce con l’art. 3 – quater il principio dello sviluppo sostenibile correlato alla tutela delle generazioni presenti e future ed impone alla pubblica amministrazione di tenere in prioritaria considerazione, nell’ambito di interessi pubblici e privati connata di discrezionalità, gli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale.

Prende avvio da tali presupposti fondativi il principio secondo cui i danni causati all’ambiente devono gravare esclusivamente sui responsabili delle situazioni di contaminazione. Il principio del “chi inquina paga” – previsto nell’art. 3 – ter del medesimo d.lgs. si basa proprio su questo assunto e permette di far ricadere i costi destinati alla protezione dell’ambiente su chi provoca il degrado. In tal modo, si incoraggiano gli imprenditori a ridurre le emissioni inquinanti causate dalle proprie attività, ricercando prodotti e tecnologie innovative, in grado di assicurare il minor impatto possibile sulle risorse ambientali. L’introduzione di tale principio si basa sul convincimento che produttori e consumatori vengono indotti a scegliere alternative meno inquinanti proprio per evitare le sanzioni a carico dell’inquinatore[2]. Gli incentivi per incoraggiare l’utilizzo di tecniche meno dannose per l’ambiente possono essere di natura economica, creditizia o fiscale, accompagnate da misure che fungono da stimolo all’innovazione tecnologica.

Infatti, l’inquinamento, dal punto di vista economico, crea una inefficiente allocazione delle risorse economiche. Le Istituzioni pubbliche sono chiamate ad intervenire proprio al fine di correggere le alterazioni dell’ecosistema. E’ necessario un sistema pubblico di regolazione, attraverso cui si attribuisce un prezzo al bene ambiente in modo da costringere l’imprese a ridurre le emissioni inquinanti e a sopportare i costi per gli opportuni adeguamenti del processo produttivo.

E tuttavia il principio del “chi inquina paga” sconta il fatto di essere una tecnica riparatoria, chiamata a svolgere per sua naturale vocazione un ruolo di chiusura in quanto misura di contrasto rispetto al comportamento colpevole dell’operatore che pone in essere comportamenti contrari ai principi imposti dagli atti di regolazione.

Fin dal Trattato del 1957 il principio di prevenzione ha costituito un concetto chiave per la costruzione di un modello normativo preordinato alla salvaguardia delle risorse naturali. Esso trova esplicita accoglienza nel 1986 con l’adozione dell’Atto Unico Europeo. La disposizione contenuta nell’art. 130 R, attraverso il collegamento tra prevenzione e correzione dei danni causati all’ambiente, mette in luce l’esigenza di un favor per l’azione preventiva rispetto all’attività di correzione, che rappresenta una misura di extrema ratio, volta a fronteggiare le alterazioni ambientali già verificatesi.

I documenti internazionali e quelli comunitari dedicano la loro attenzione agli strumenti di natura preventiva. I principi dell’azione preventiva e della precauzione si collocano in una posizione di assoluta priorità nell’attuazione delle politiche europee. In particolare, l’art. 174, 2° comma del Trattato dell’Unione europea si ispira a tali principi, impegnando l’Unione nell’elaborazione di misure internazionali volte a preservare e migliorare la qualità dell’ecosistema e la gestione oculata delle risorse naturali del pianeta.

Il principio di prevenzione assume una portata di carattere generale e si prefigge la predisposizione di misure protettive per evitare che il danno all’ambiente si produca, il concetto di precauzione costituisce una sua declinazione applicativa, una sua modalità di attuazione. Tuttavia, tra i due principi sussiste una differenza fondamentale poiché il meccanismo della precauzione – al contrario di quel che avviene per la prevenzione – si aziona anche quando è assente la certezza scientifica che un comportamento provochi nocumento per l’ambiente. In ogni caso azione preventiva e principio precauzionale rappresentano regole che contribuiscono in maniera significativa a prevenire i pericoli, anche meramente potenziali, alla salute umana, alla sicurezza, all’ambiente. Qualora “le informazioni scientifiche siano insufficienti, non conclusive o incerte e vi siano indicazioni che i possibili effetti sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possano essere potenzialmente pericolosi e incompatibili con il livello di protezione prescelto” l’ordinamento comunitario predispone una serie di strumenti capaci di scongiurare il verificarsi dell’evento dannoso (Comunicazione della Commissione sul principio di precauzione, Bruxelles, 2 febbraio 2000).

La valutazione delle informazioni disponibili è uno degli aspetti di maggior interesse per quanto riguarda l’applicazione del principio di precauzione. Secondo il legislatore comunitario, soltanto se dopo un’accorta analisi dei dati conoscibili continua a permanere una situazione di incertezza sul piano scientifico e venga individuata la possibilità di effetti dannosi sulla salute possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio.

In altre parole, il principio di precauzione richiede un approccio anticipatorio dei fenomeni legati all’ambiente e al patrimonio naturale tutte le volte in cui i danni che possono derivare all’ecosistema devono considerarsi irreversibili. Nella consapevolezza che il processo di modernizzazione ha “dato vita a quella che, emblematicamente, è stata denominata società del rischio”[3], la ricerca di un punto di equilibrio tra il progresso tecnologico e industriale e i rischi che ne derivano assume un ruolo centrale.

Sicché, al fine di prevenire il verificarsi di tali eventi pregiudizievoli bisogna porre in essere misure di contrasto in una fase antecedente a quella in cui il danno si è prodotto, addirittura quando non esiste ancora la certezza di una prova scientifica.

La Convenzione di Aarhus: diritto alla trasparenza e partecipazione del pubblico ai processi decisionali sulle tematiche ambientali.

La Convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, sottoscritto ad Aarhus, in Danimarca il 25 giugno 1998 costituisce il documento normativo che probabilmente più di altri getta le basi per la costruzione di una nuova organizzazione ambientale i cui tratti qualificanti sono la trasparenza e l’accesso alle informazioni ambientali, la diffusa e consapevole partecipazione dei singoli alle decisioni in materia ambientale, l’accesso del pubblico a meccanismi giudiziari efficaci. Siamo di fronte ad un vero cambio di passo in cui l’aspetto innovativo per l’evoluzione dei modelli di tutela dell’ambiente consiste nell’incoraggiare la libera circolazione delle informazioni scientifiche, il libero accesso da parte dei cittadini alle informazioni ambientali.

Comincia, così, ad acquistare spessore giuridico il decimo principio contenuto nella Dichiarazione di Rjo del giugno del 1992, laddove si affermava che per affrontare le questioni legate all’ambiente il modo migliore restava il coinvolgimento consapevole della società.

La Convenzione di Aarhur riconosce che ogni persona ha il diritto di vivere in un ambiente atto ad assicurare la sua salute e il suo benessere e il dovere di tutelare l’ambiente, nell’interesse delle generazioni presenti e future ma per affermare tale diritto e adempiere a tale dovere il presupposto è che i cittadini devono avere accesso alle informazioni, essere ammessi a partecipare ai processi decisionali e avere accesso alla giustizia in materia ambientale[4].

Infatti, con un più ampio accesso alle informazioni e una maggiore partecipazione ai processi decisionali è possibile migliorare la qualità delle decisioni e realizzare una sensibilizzazione del pubblico alle tematiche ambientali. L’innalzamento dei livelli di trasparenza migliora la qualità delle informazioni in possesso del decisore pubblico che devono essere precise, complete e aggiornate[5].

La trasparenza dunque assume un ruolo centrale nella politica dell’ambiente sia comunitaria che nazionale sia quando si tratta di agire con strumenti di carattere preventivo capaci di operare ex ante e dunque preordinati ad evitare il verificarsi di eventi dannosi, sia laddove la tutela si fonda su un intervento ex post, parametrato su criteri economicistici del c.d. risarcimento per equivalente, secondo il principio del “chi inquina paga”.

Ed invero, per perseguire un elevato livello di tutela dell’ambiente sia di carattere anticipatorio che di tipo riparatorio la base irrinunciabile è il rafforzamento dell’accesso e della diffusione del patrimonio informativo in materia ambientale. La Convenzione di Aarhus chiede agli Stati di attuare il principio di massima trasparenza come diritto di accesso non condizionato dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti ed aventi ad oggetto tutti i dati, i documenti e le informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni in materia ambientale.

Il diritto all’informazione ambientale nella Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003 n. 4.

Così la direttiva 2003/4/Ce pone come primario l’obiettivo di garantire il diritto di accesso alle informazioni ambientali detenute dalle autorità pubbliche, la messa a disposizione dei richiedenti al più presto possibile e in tempi ragionevoli tenendo conto di un eventuale termine specificato dal richiedente[6].

Il diritto all’informazione implica che la divulgazione dell’informazione sia ritenuta un principio generale e che alle autorità pubbliche sia consentito respingere una richiesta di informazione ambientale in casi specifici e chiaramente definiti. La direttiva chiarisce che le ragioni del rifiuto vanno interpretate in maniera restrittiva, operando un bilanciamento tra l’interesse pubblico tutelato dalla divulgazione delle informazioni con l’interesse tutelato dal rifiuto di divulgarle. Le ragioni del rifiuto dovranno essere comunicate al richiedente entro un periodo di tempo prestabilito, in ogni caso contro il rifiuto delle informazioni deve essere sempre consentito ricorrere in sede giurisdizionale o amministrativa.

E’ fondamentale in tema di accesso delle informazione ambientali sia l’aspetto quantitativo che qualitativo: da tale ultimo punto di vista il dato reso disponibile deve essere comprensibile, preciso e reso comparabile. Gli Stati membri provvedono a rendere disponibile l’informazione ambientale da essi detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che il richiedente debba dichiarare il proprio interesse. Le uniche ragioni che consentono alle autorità pubbliche di respingere la richiesta di informazione ambientale sono elencate tassativamente e riguardano casi di pregiudizio arrecato alla riservatezza delle deliberazioni interne delle autorità pubbliche, alle relazioni internazionali, alla sicurezza pubblica o alla difesa nazionale; allo svolgimento di procedimenti giudiziari, alla possibilità di ogni persona di avere un processo equo o alla possibilità per l’autorità pubblica di svolgere indagini di carattere penale o disciplinare; alla riservatezza delle informazioni commerciali o industriali qualora la riservatezza sia prevista dal diritto nazionale o comunitario per tutelare un legittimo interesse economico, compreso l’interesse pubblico di mantenere la riservatezza statistica ed il segreto fiscale; ai diritti di proprietà intellettuale; alla riservatezza dei dati personali; alla tutela dell’ambiente cui si riferisce l’informazione, come nel caso dell’ubicazione di specie rare.

Il freedom of information act in materia ambientale secondo il d.lgs. n. 195 del 2005.

Il decreto legislativo n. 195 del 2005 rappresenta la prima disciplina di accessibilità totale dei dati e dei documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni in materia ambientale. Al fine di garantire la più ampia trasparenza dell’informazione ambientale il decreto stabilisce un sistema volto a diffonderla, anche attraverso i mezzi di telecomunicazione e gli strumenti informatici, in forme facilmente consultabili, promuovendo l’uso delle tecnologie e della comunicazione.

Per la prima volta nell’ordinamento italiano viene introdotto il diritto di chiunque di conoscere dati e informazioni in possesso di pubblici uffici, senza che il richiedente debba dichiarare il proprio interesse. Detto in altri termini, si tratta di un diritto di accesso generalizzato non condizionato dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti. L’istante – a differenza di quanto avviene con riferimento alla disciplina dell’accesso previsto dalla legge n. 241/ 1990 – non deve dimostrare di essere titolare “di un interesse concreto diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”. L’intento del legislatore che ha costruito un diritto di accesso, superando il criterio della legittimazione soggettiva, va ricercato proprio nella realizzazione dell’interesse pubblico e della collettività alla tutela dell’ambiente e della salute, secondo quanto emerge dalle previsioni costituzionali contenute negli artt. 9 e 32.

Così, si realizza un sistema binario modellato, per un verso, sull’obbligo di pubblicazione imposto dalle disposizioni contenute negli artt. 4 e 8 del d.lgs. 195 ad ogni singola amministrazione chiamata ad istituire ed aggiornare appositi cataloghi pubblici contenenti l’elenco delle tipologie dell’informazione ambientali detenute, per altro verso, sul diritto riconosciuto a “chiunque”, e a titolarità diffusa, che incontra quali unici limiti il rispetto degli interessi pubblici e privati indicati nell’art. 5.

Precisamente, l’obbligo di pubblicazione si realizza mettendo a disposizione l’informazione ambientale detenuta dalle amministrazioni pubbliche attraverso le tecnologie di telecomunicazione informatica e le banche dati da aggiornare annualmente che devono contenere i testi dei trattati e delle convenzioni internazionali e atti comunitari, nazionali e regionali in materia ambientale; le politiche, i piani e i programmi per l’ambiente; le relazioni sullo stato dell’ambiente; le valutazioni di impatto ambientale e gli accordi in materia ambientale.

Il decreto legislativo n. 195 prevede l’ulteriore possibilità che l’informazione ambientale possa essere resa disponibile creando collegamenti a sistemi informativi e a banche dati elettroniche, anche gestiti da altre autorità pubbliche, da rendere facilmente accessibili agli utenti.

La ratio della disciplina, che risente delle positive contaminazioni provenienti dal diritto comunitario[7], è quella di favorire, proprio attraverso il principio di massima trasparenza, forme penetranti di controllo sulla qualità ambientale, rimovendo ogni impedimento che possa costituire un ostacolo alla corretta informazione sullo stato dell’ambiente.

Il decreto legislativo n. 195 del 2005 prevede una procedura molto puntuale che regolamenta le richieste d’accesso generalizzato. La pubblica amministrazione è tenuta a fornire il dato entro il termine di trenta giorni; nei casi in cui la domanda contenga aspetti di particolare complessità il termine è prorogato fino a sessanta giorni. In caso di rifiuto l’amministrazione deve motivare per iscritto le ragioni del diniego.

Sia in caso di mancata risposta entro i termini previsti, che nell’ipotesi in cui l’amministrazione si esprima con un provvedimento di rigetto della domanda di accesso, il richiedente può presentare ricorso in sede giurisdizionale, ovvero chiedere il riesame al difensore civico competente per territorio, nel caso di atti di Comuni, Province o Regioni.

Si tratta di una disciplina all’avanguardia che apre la strada nell’ordinamento italiano alla trasparenza costruita sul modello anglosassone e che consente ai cittadini di conoscere lo stato di salubrità dei luoghi, di raccogliere i documenti e le informazioni sulle zone contaminate e il tipo di inquinamento, allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di intervento di bonifica e ripristino ambientale e che consente di monitorare lo stato di avanzamento dell’attività di bonifica dei siti contaminati.

Proprio nell’intento di allargare il perimetro dell’accesso il d.lgs. 195/2005 vi fa rientrare qualsiasi informazione ambientale “disponibile in forma scritta, visiva, sonora, elettronica od in qualunque altra forma materiale” che concerne lo stato degli elementi dell’ambiente, quali l’aria, l’atmosfera, l’acqua, il suolo, il territorio, i siti naturali, le interazioni tra questi elementi; i fattori quali le sostanze, le energie, i rumori, le radiazioni, i rifiuti; le misure, anche amministrative, quali le politiche, le disposizioni legislative, i piani, i programmi, gli accordi ambientali; le relazioni sull’attuazione della legislazione ambientale; le analisi costi e benefici; lo stato della salute e della sicurezza umana, compresa la contaminazione della catena alimentare, le condizioni della vita umana, il paesaggio, i siti e gli edifici d’interesse culturale.

Il controllo sociale è reso possibile dalla circostanza che il decreto legislativo n. 195 del 2005 individua casi di esclusioni del diritto di accesso di carattere puntuale che operano, non come eccezioni assolute, ma attraverso il compimento di una attività valutativa che deve essere effettuata caso per caso, con la tecnica del bilanciamento, tra l’interesse alla conoscibilità diffusa e i differenti diritti ritenuti dall’ordinamento altrettanto meritevoli di tutela.

In particolare, l’art. 5 del d. l.g.sl. n. 195 precisa che l’accesso all’informazione ambientale è negato quando l’informazione richiesta non è detenuta dalla pubblica amministrazione alla quale è rivolta la richiesta di accesso, ciò in quanto l’amministrazione non è tenuta a raccogliere informazioni che non sono in suo possesso, ma è obbligata a rispondere sulla base dei documenti e delle informazioni che possiede; inoltre i pubblici uffici non sono tenuti a rielaborare informazioni in loro possesso, per rispondere ad una richiesta di accesso generalizzato, ma deve consentire l’accesso ai documenti e ai dati così come sono già detenuti e organizzati.

La richiesta è manifestamente irragionevole, ad esempio nel caso un numero cospicuo di documenti e informazioni sia tale da pregiudicare in modo serio ed immediato il buon funzionamento dell’amministrazione; tale circostanza va adeguatamente motivata nel provvedimento di rifiuto.

La richiesta è espressa in termini eccessivamente generici, tale, cioè da non consentire l’individuazione del dato, del documento o dell’informazione, con riferimento almeno, alla loro natura e al loro oggetto.

Inoltre l’accesso all’informazione è negato quando la divulgazione del dato reca pregiudizio ad interessi pubblici inerenti a relazioni internazionali, all’ ordine pubblico, alla sicurezza pubblica, alla difesa nazionale; allo svolgimento di procedimenti giudiziari o alla possibilità per l’autorità pubblica di svolgere indagini per l’accertamento di illeciti; alla tutela dell’ambiente e del paesaggio, cui si riferisce l’informazione, come nel caso dell’ubicazione di specie rare.

Ovvero se l’informazione reca pregiudizio ad interessi privati inerenti alla riservatezza dei dati personali, alla riservatezza delle informazioni commerciali o industriali, ai diritti di proprietà intellettuale.

La disposizione obbliga l’amministrazione a verificare se il pregiudizio agli interessi considerati nella previsione contenuta nell’art. 5 sia concreto e se esso dipenda direttamente dalla disclosure dell’informazione ambientale richiesta. Ciò emerge chiaramente dal tenore letterale del 3° comma dell’art. 5 in cui si afferma che “l’autorità pubblica applica le disposizioni dei commi 1 ° e 2° in modo restrittivo, effettuando, in relazione a ciascuna richiesta di accesso, una valutazione ponderata fra l’interesse pubblico all’informazione ambientale e l’interesse tutelato dall’esclusione dall’accesso”.

Detto in altri termini, affinché l’accesso possa essere rifiutato, il pregiudizio agli interessi con cui operare, di volta in volta, un bilanciamento, deve essere concreto e deve sussistere un nesso di causalità tra l’accesso e il pregiudizio.

Pubblicazione e accesso alle informazioni ambientali secondo il nuovo paradigma del d.lgs. n.33 del 2013: le nuove prospettive del diritto di conoscere l’ambiente.

Nell’ottica di un radicale mutamento di prospettiva delle relazioni tra istituzioni e cittadini, necessaria conseguenza dell’innovazione digitale e della progressiva transizione del sistema amministrativo verso modelli di democrazia partecipata, il d.lgs. n.33 del 2013 modificato dal decreto legislativo n. 97/2016 conferisce al principio della trasparenza una portata di carattere generale e non più limitata soltanto alle informazioni di carattere ambientale.

Le nuove discipline si pongono inoltre due obiettivi fondamentali collegati entrambi al valore della massima visibilità degli atti e delle informazioni pubbliche e in questa parte riprendono la previsione contenuta nell’art. 10 del d. lgs. n. 195 laddove si sottolinea l’importanza della qualità dell’informazione ambientale e si chiede al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio di garantire che i dati detenuti dalle amministrazioni siano aggiornati, precisi e confrontabili. Infatti, la trasparenza deve essere intesa come semplificazione e va realizzata attraverso la redazione di norme procedimentali più snelle con l’uso di un linguaggio comprensibile da parte del cittadino comune 2.

La semplificazione, anche linguistica, è il tratto qualificante della trasparenza, riempiendo di effettività il principio di eguaglianza sostanziale sancito nell’art. 3, 2° comma della Cost., laddove alla Repubblica viene affidato il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto l’eguaglianza dei cittadini, impediscono l’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Poiché la capacità di coinvolgimento nei procedimenti amministrativi varia a seconda delle specifiche competenze e del diverso grado di istruzione delle persone, la trasparenza deve essere finalizzata, segnatamente, al fine di rendere accessibile a tutti il contenuto dei provvedimenti amministrativi, per una reale partecipazione.

Anzi, sotto questo profilo, la partecipazione dei cittadini acquisisce lo spessore di diritto fondamentale ai sensi dell’art. 2 Cost. ed essenza stessa del principio di trasparenza Non solo. L’esigenza di rendere comprensibili le scelte amministrative si pone come parte integrante del concetto di certezza del diritto, atteso che un’azione amministrativa equivoca e non intellegibile può facilmente trascendere in una lesione del principio di prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’agire individuale e, in buona sostanza, del principio di autoresponsabilità della persona.

Con particolare riferimento alle tematiche ambientali, l’art. 40 del decreto legislativo n. 33 del 2013 modificato dal d.lgs. n.97 del 2016 prevede che in materia di informazioni ambientali restano ferme le disposizioni di maggior tutela già previste dell’art. 3 – sexies del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152 che richiamando la Convenzione di Aarhus dispone che chiunque, senza essere tenuto a dimostrare la sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante, può accedere alle informazioni relative dell’ambiente e del paesaggio nel territorio nazionale.

Nel 2° comma, l’art. 40 richiama il decreto legislativo n. 195 del 2005 nella parte in cui prevede la pubblicazione da parte delle amministrazioni delle informazioni ambientali di cui all’art. 2, comma 1°, lettera a) del decreto legislativo 19 agosto 2005 n. 195 che detengono ai fini delle proprie attività istituzionali; medesimo obbligo di pubblicazione è previsto per la relazione sullo stato dell’ambiente elaborata dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio. Di tali informazioni deve essere dato specifico rilievo all’interno di una apposita sezione detta “informazioni ambientali”.

Il 3° comma si preoccupa di ribadire i casi di esclusione del diritto di accesso alle informazioni ambientali di cui all’art.5 del decreto legislativo 19 agosto 2005, n.195.

I casi di esclusione del diritto alla conoscibilità generalizzata elencati nell’art. 5 sopra richiamato costituiscono ipotesi residuali, al cospetto di un quadro ordinamentale edificato sui pilastri della trasparenza universale. Il diniego di accesso agli atti e ai documenti in materia ambientale deve trovare giustificazione, in termini di pregiudizio concreto degli interessi in gioco. In particolare, il legislatore del 2005 con i casi di esclusione previsti nell’art. 5 non pone delle eccezioni assolute al diritto di accesso, ma rinvia ad una attività valutativa che deve essere effettuata caso per caso, attraverso la tecnica del bilanciamento, tra l’interesse pubblico all’accesso generalizzato e altre esigenze di carattere pubblico o privato.

Nel caso in cui l’amministrazione propenda per il diniego connesso all’esistenza di effetti pregiudizievoli per altri interessi coinvolti nella richiesta di accesso, l’amministrazione è tenuta a motivare in maniera congrua e completa il provvedimento, al fine di consentire al cittadino di conoscere le ragioni del rifiuto ed eventualmente ricorrere dinanzi al giudice amministrativo.

Si è avuto già modo di chiarire che gli interessi pubblici e privati indicati nell’art. 5 del decreto legislativo n. 195 e richiamati nel d.lgls.n.33 costituiscono esclusioni relative al diritto di accesso generalizzato, nel senso che solo dinanzi all’esistenza di un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi considerati è possibile rigettare l’istanza.

Le amministrazioni che detengono informazioni ambientali potranno trarre utili indicazioni ai fini della identificazione degli interessi pubblici e privati considerati nell’art. 5 del decreto n. 195 del 2005 nelle linee guida approvate dall’Autorità Nazionale Anticorruzione, d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali[8].

[1] In proposito, si rinvia a I. Nicotra, Relazione Introduttiva, in Il danno ambientale tra prevenzione e riparazione, a cura di I. Nicotra – U. Salanitro, Torino 2010, 16 ss.

[2] Cfr., sul punto, M. Meli, Il principio “chi inquina paga” nel codice dell’ambiente, in Il danno ambientale, cit., 69 ss.; ID., Il principio chi inquina paga e il costo delle bonifiche, in Principi europei e illecito ambientale, a cura di A. D’Adda, I.A. Nicotra, U. Salanitro, Torino 2013, 59 ss.

[3] Così T. Fortuna, Inquinamento elettromagnetico vs diritto alla salute: il rimedio nell’approccio precauzionale, in Principi europei e illecito ambientale, cit.

[4] Cfr.E. Croci, Trasparenza dell’azione pubblica in materia ambientale: l’evoluzione normativa, in Diritto dell’Ambiente, www.dirittoambiente.com

[5] In proposito, sia consentito rinviare a I.A. Nicotra, La trasparenza e la tensione verso i nuovi diritti di democrazia partecipativa, in L’Autorità Nazionale Anticorruzione tra prevenzione e attività regolatoria, a cura di I. A. Nicotra, Torino 2016, 143 ss.

[6] Al riguardo, F. Albanese, Il diritto di accesso agli atti e alle informazioni ambientali, in www.lexambiente.

[7] Sull’influenza del diritto dell’Unione europea sulla legislazione ambientale italiana, I.A. Nicotra, Influenza del diritto dell’Unione Europea sulla legislazione penale ambientale tra “contro limiti” e principi costituzionali, in Principi europei, cit. e cfr. inoltre I principi contenuti nella direttiva comunitaria 2003/4/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003.

[8] Cfr. Linee Guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del d.l.gs.33/2013, Art. 5 bis, comma 6, del d.lgs. n. 33 del 14/03/2013 recante “Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”, approvato con Delibera n. 1309 del 28 dicembre 2016.

Relazione italiana 2 del dott. Lo Sapio – Catanzaro – 26/5/2017

“I principi astratti possono trascendere eccessivamente l’esigenza umana. La situazione concreta è pressoché tutto”

Berlin, on the Pursuit of the Ideal

1.L’attuazione del principio polluter pays in Italia, attraverso la responsabilità per danno ambientale: la logica di fondo e la sommatoria di “incertezze”.

Nell’attuazione del principio chi inquina paga, mediante la responsabilità per danno ambientale, si intersecano due settori connotati da ampi margini di “frammentarietà”: quello del “diritto amministrativo ambientale” e quello della responsabilità extracontrattuale, entro cui è tradizionalmente annoverata la responsabilità per danno ambientale.

E’ pertanto un progetto quanto meno ambizioso del legislatore quello di attuare a tale nesso funzionale (principio polluter pays/responsabilità ambientale) uno dei principi fondamentali del diritto ambientale europeo ed internazionale che invece fa leva sulla “calcolabilità” degli scenari e della comparazione tra i costi delle misure dirette a ridurre l’inquinamento e i costi del danno ambientale atteso.

2.Le incertezze del diritto ambientale.

Il diritto dell’ambiente viene diffusamente configurato come un “diritto sonda”, precursore delle prospettive future del diritto amministrativo, anticipatore di linee evolutive. Per questo affascinante, ma anche fonte di disorientamento, essendo difficilmente intellegibile con l’utilizzo di categorie tradizionali[1].

Qualunque sia la nozione, ampia o ristretta, che si accolga dell’ambiente, esso è indiscutibilmente un bene “di tutti e di nessuno”, non avente un prezzo di mercato e non suscettibile di essere oggetto di proprietà privata; un bene per il quale viene invocata la categorie dei giuristi romani delle “res communes omnium”, di pertinenza del “Populus”, inteso quale “collettività indistinta” (Maddalena).

A tali incertezze intellettuali, si aggiungono le incertezze “della natura delle cose”, il tasso di imprevedibilità dei fenomeni naturali, la dinamicità dei sistemi ecologici e la variabile non sempre governabile del fattore tempo, che spesso è notevole tra la condotta lesiva e l’emersione dei suoi effetti.

La frammentazione del sistema di responsabilità civile.

Nel diritto civile italiano, però, anche il settore della responsabilità extracontrattuale, in cui si vorrebbe inquadrare la responsabilità per danno ambientale, presenta analoghi ampi spazi di incertezza.

Pur trattandosi di una partizione del diritto non di recente emersione come il diritto ambientale, la responsabilità civile cd. “aquiliana” appare non più come un sistema ordinato focalizzato sulla norma cardine prevista dall’art. 2043 del codice civile e su figure speciali, derogatorie del criterio di imputazione della responsabilità per colpa, ma come un insieme di “sottosistemi”, alcuni di derivazione europea (responsabilità del medico, dell’avvocato, delle imprese di produzione, della pubblica amministrazione, dei magistrati); ognuno con proprie finalità e criteri di imputazione, in cui non è possibile tracciare la linea di demarcazione tra la regola e l’eccezione: più che un sistema, “un aggregato di isole” (Alpa).

Il principio chi inquina paga: la calcolabilità delle decisioni nella incertezza degli scenari.

L’attuazione del principio chi inquina paga mediante la responsabilità per danno ambientale è pertanto un’area di interferenza tra due “cantieri aperti” (diritto ambientale e illecito civile). Eppure il principio polluter pays si fonda su un assioma che appare in contraddizione con tali incertezze: quello “calcolabilità delle decisioni”.

E’ infatti noto che esso, per come è stato elaborato anche nel diritto internazionale e fin dalla sua prima apparizione nella Raccomandazione dell’OCSE sulla politica ambientale 45 anni fa[2], non ha alcuna finalità sanzionatoria, ma è un criterio di imputazione dei costi.

Ha lo scopo di internalizzare le diseconomie (cd. spill-over effects) che le attività produttive, ma pericolose per l’ambiente, procurano alla collettività sotto il profilo ambientale, addossandone il costo a chi ne è responsabile, il quale è ritenuto anche il soggetto più in grado di “governarle” in senso preventivo.

Esso si rivolge ad “operatori economici” – e nella prospettiva della Direttiva Europea 2004/35/CE cd. “Enviromental Liability Directive” ad operatori economici qualificati – a soggetti cioè abituati a prendere decisioni su investimenti, scelte strategiche aziendali, assetti organizzativi in condizioni almeno di “prevedibilità degli scenari” ed, anzi, presuppone che siano proprio i produttori delle esternalità negative delle attività inquinanti a detenere le più accurate informazioni sull’impatto ambientale delle loro attività e sui relativi costi di prevenzione.

Il principio pertanto – o meglio la sua attuazione mediante istituti giuridici specifici, come quello della responsabilità ambientale – funziona se il rischio di incorrere nella misura risarcitoria per danno ambientale ha un effetto persuasivo nei confronti degli operatori economici; ovvero li induce ad adottare sistemi di prevenzione, più rispettosi dell’ecosistema e del territorio in cui si svolge l’attività, almeno fino al punto in cui il costo marginale delle misure dirette a ridurre l’inquinamento non è superiore al costo del danno ecologico atteso.

Perché tale meccanismo artificiale sia efficace – in un settore in cui i fenomeni di riferimento fattuale sono, come detto, caratterizzati dalla imprevedibilità e sono oggetto di una continua ricerca tecnologica e scientifica –è quindi fondamentale che le regole giuridiche che disciplinano la responsabilità per danno ambientale garantiscano almeno due condizioni:

la loro certezza e conoscibilità, con particolare riferimento ai criteri legali per determinare le misure risarcitorie e i costi del danno ambientale, compresi i “costi amministrativi” per il suo accertamento;
la disponibilità di dati e delle informazioni in materia di danno ambientale, per verificare come le regole astratte sono applicate in concreto, dalla giurisprudenza.

La domanda cui si tenta di trovare risposta è se tali condizioni minime di “esigibilità” del buon funzionamento della disciplina del danno ambientale siano rispettate dal diritto nazionale, con particolare riguardo a tre aspetti che concernono più da vicino l’esercizio della giurisdizione:

l’individuazione della normativa nazionale di riferimento, considerata la sovrapposizione tra diverse discipline della responsabilità dal danno ambientale, prima e dopo la “ELD”, con particolare riguardo alle regole di determinazione delle misure ripristinatorie e alla quantificazione del loro costo;
la legittimazione ad agire in giudizio per far valere la responsabilità nei confronti dei responsabili;
soprattutto, l’individuazione di quale sia il giudice, civile o amministrativo, davanti al quale viene attivata la tutela risarcitoria.
L’evoluzione della normativa nazionale sulla responsabilità per danno ambientale e le fughe in avanti le legislatore.

Prima che la responsabilità per danno ambientale fosse disciplinata dal legislatore con la legge 349/1986, e molto prima che lo stesso bene giuridico dell’Ambiente trovasse un riconoscimento espresso nella Costituzionale Italiana (avutosi solo con la Legge Costituzionale n.3 del 2001 che ha inserito l’ambiente e l’ecosistema nell’art. 117 Cost tra le materia di competenza legislativa esclusiva statale), l’esigenza di una tutela giuridica dell’interesse ambientale fu colta dalla giurisprudenza, sia della Corte di Cassazione che della Corte dei Conti attraverso una interpretazione estensiva di istituti preesistenti: il diritto alla salute (art. 32 Cost.), la tutela della proprietà dalle immissioni intollerabili (art. 844 c.c.), da un lato; il danno erariale (dall’altro).

Il primo casom che notoriamente si riporta nella ricostruzione storica del danno ambientale, è quello dei cd. Fanghi Rossi di Scarlino degli anni 70, confluito in uno storico conflitto di giurisdizione tra Corte dei Conti e Cassazione civile, poi risolto a favore di quest’ultima[3].

Il caso è emblematico perché in esso si anticipano tutte le questioni che negli anni successivi e ancora oggi si agitano nella responsabilità per danno ambientale, prima tra tutte, la commistione tra pubblico e privato e la conseguente “concorrenza” tra le giurisdizioni.

Qualche mese prima dopo che il principio “chi inquina paga” fosse enunciato nel diritto europeo, con l’Atto Unico Europeo firmato a Lussemburgo il 28 febbraio 1986, ma prima che entrasse in vigore (1 luglio del 1987), nell’ordinamento italiano fu introdotta la Legge 349/1986 che istituiva il Ministero dell’Ambiente e disciplinava – esperienza unica nel panorama europeo – la responsabilità per danno ambientale.

Si trattava – come osservato dalla dottrina prevalente – di un “ibrido” a metà strada tra l’illecito civile delineato dall’art. 2043 c.c., visto il criterio di imputazione della responsabilità fondato sulla colpa, e una sanzione pubblicistica con finalità puntive, considerato che la legittimazione ad agire per chiedere il risarcimento del danno era riservata sia allo Stato che agli enti pubblici territoriali nel cui ambito si era verificato il danno e che nella quantificazione anche equitativa del danno ambientale il giudice civile doveva tener conto “della gravità della colpa individuale, il costo necessario per il ripristino e il profitto economico conseguito dal trasgressore”.

L’opzione per una forma di responsabilità soggettiva, e il conseguente gravoso onere probatorio addossato all’ente pubblico che agiva in giudizio, fu subito criticata dalla maggior parte della dottrina che guardava all’esperienza, non solo d’oltralpe ma anche americana, in cui invece si consolidava l’idea che il criterio di imputazione oggettiva fondato sul “rischio di impresa” fosse più adeguato alla finalità preventiva e sollecitatoria del principio polluter pays.

In questo vivace dialogo, si inserisce la tormentata attuazione della Direttiva 2004/35/CE.

Il legislatore italiano ha attuato la direttiva europea più che in anticipo, troppo in fretta.

L’attuazione è avvenuta un anno prima della dead line fissata per il 30 aprile 2007, con la parte VI del Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 “Norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente” che impropriamente è denominato “Codice dell’ambiente”.

Il recepimento della direttiva europea sulla responsabilità per danno ambientale è stato segnato da una procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea nel 2007 (procedura n. 2007/4679) che ha imposto una modifica legislativa a due tappe del testo normativo, nel 2009 e nel 2013.

Le censure mosse dalla Commissione riguardavano, in particolare:

– il criterio di imputazione della responsabilità, ancora incentrato – come nell’art. 18 della L. 349/1986 – sulla colpa (o dolo), con l’effetto di una eccessiva restrizione dell’ambito di applicazione della direttiva;

-l’introduzione di una causa di esenzione della responsabilità, nel caso fossero state avviate le procedure di bonifica;

-la previsione della misura risarcitoria pecuniaria, in alternativa alle misure di riparazione, in violazione del principio della priorità delle misure ripristinatorie (suddivise in misure primarie, complementari e compensative).

Con la modifica legislativa del 2013, l’Italia si è alla fine adeguata alla direttiva europea, sia con riguardo al criterio di imputazione oggettivo, fondato sul rapporto di causalità tra attività pericolosa e danno (escludendosi ogni responsabilità “da posizione”), sia con riferimento alle misure risarcitorie (art. 311 D.Lgs. 152/2006), dando priorità a quelle ripristinatorie. Secondo quanto indicato dalla normativa europea, solo nell’ipotesi in cui le misure di riparazione primaria – volte a riportare la risorsa ambientale alla condizione originaria (cd. baseline) – o complementare – volta a ricostituire l’ambiente danneggiato in un sito diverso da quello originario – e compensative – dirette a porre rimedio alle perdite provvisorie, verificatesi nelle more del recupero completo dell’ecosistema – non sono attuate secondo i tempi e le modalità determinate in via giudiziale (o, in alternativa, in via amministrativa), è possibile una quantificazione monetaria parametrata sui costi per la loro attuazione.

Visto il continuo sovrapporsi di interventi legislativi, una elementare condizione di certezza del quadro normativo dovrebbe pertanto essere costituita dalla individuazione di quale norma si applica nel tempo, anche considerando lo spazio temporale spesso notevole tra la condotta pericolosa e l’emergere del danno prodotto.

Condizione che però non pare sia completamente rispettata.

In effetti, da un lato, l’art. 303 del D.lgs. 152/2006 (co. 1 lett. f) stabilisce che la disciplina sulla responsabilità per danno ambientale non si applica al danno “causato da un’emissione, un evento o un incidente verificatisi” prima della sua entrata in vigore, nonché ai danni – evidentemente lungolatenti – “in relazione ai quali siano trascorsi più di trent’anni dalla emissione, dall’evento o dall’incidente che l’hanno causato; con la conseguenza che ai fatti pregressi si continuerà ad applicare la disciplina antecedente, prevista dall’art. 18 della L. 349/1986 (ovvero il criterio soggettivo della colpa specifica da esso previsto e il conseguente più gravoso onere probatorio a carico dell’attore/ente pubblico).

Dall’altro, però per il metodo di quantificazione delle misure di riparazione, si applica però alle controversie pendenti, senza alcuna esclusione, la nuova normativa.

L’art. 311 co. 3 del D.Lgs. 152/2006 stabilisce, infatti, che “i criteri e i metodi anche di valutazione monetaria per determinare la portata delle misure di riparazione complementare e compensativa devono essere definiti con un decreto del Ministero dell’Ambiente da approvarsi entro 60 giorni dall’entrata in vigore della norma” e che essi “trovano applicazione anche ai giudizi pendenti” non ancora definiti alla data di entrata in vigore del predetto decreto ministeriale.

Le maggiori perplessità sorgono dalla considerazione che tale decreto – che ha un’efficacia regolamentare – a distanza di oltre dieci anni dall’entrata in vigore del cd. Codice dell’Ambiente non è stato ancora adottato[4].

La legittimazione ad agire esclusiva dello Stato e l’intreccio tra assetti organizzativi e rimedi ripristinatori.

Su un punto, però, la normativa italiana di attuazione della cd. ELD ha apportato quanto meno chiarezza, stabilendo che l’unico soggetto legittimato ad agire in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni all’ambiente è il Ministero dell’Ambiente[5]. Resta impregiudicato, anche nel nuovo testo, il diritto dei singoli di agire in giudizio per i danni “nella loro salute o nei beni di loro proprietà”.

La proliferazione di azioni da parte di più soggetti pubblici – e in particolare da parte degli enti locali, legittimati ad agire in base all’art. 18 della L. 349/1986, mossi evidentemente da un approccio alle problematiche ambientali diverse, è stata valutata, ex ante, come un ulteriore aggravio di “costi amministrativi”, e il monopolio in capo al Ministero della legittimazione ad agire aveva l’obiettivo di ridurla.

La scelta del legislatore del 2006 ha superato il vaglio della Corte Costituzionale che, con la sentenza 126/2016, ha ritenuto la disciplina adeguata a salvaguardare la tutela dell’ambiente.

La decisione è particolarmente interessante perché mette in luce, sia pure esaminando un aspetto processuale quale è la legittimazione ad agire, l’intreccio indissolubile che, nel campo della responsabilità per danno ambientale – come in tutto il diritto ambientale –si registra tra assetti organizzativi, tecniche di tutela e situazioni giuridiche soggettive.

La Corte ha posto l’accento sul cambio di prospettiva remediale imposto dalle norme europee sul danno ambientale: se al centro del sistema vi è il ripristino ambientale e, quindi, una gestione unitaria degli interventi di riparazione – i quali spettano in via primaria a colui che inquina, ma in via sussidiaria allo Stato – tale unitarietà “gestionale” deve tradursi anche in una unitarietà di decisione dell’attivazione della tutela risarcitoria nella sede giudiziaria, che è prima di tutto “volta a garantire alla istituzione su cui incombe la responsabilità per il risanamento, la disponibilità delle risorse necessarie, risorse che hanno appunto questa specifica ed esclusiva destinazione” (Corte Cost. 126/2016)

A oltre dieci anni dall’entrata in vigore del cd. Codice Ambientale, può dirsi che l’obiettivo di ridurre la proliferazione delle azioni giudiziarie per risarcimento del danno che si era posto il legislatore è stato più che centrato.

Nella relazione inviata nel 2013 dal Ministero dell’Ambiente alla Commissione Europea per la verifica dell’attuazione della Direttiva 2004/35/CE è emerso che, negli anni 2007-2012:

– sono stati accertati 17 casi confermati di danni ambientali (rispetto ad oltre 1000 denunce di fattispecie lesive)

– per nessuno di essi è stata segnalata l’attivazione della tutela giudiziaria davanti al giudice civile, con la domanda di risarcimento per danno ambientale.

La sostanziale non applicazione della norma è una conclusione fondata sulla base dei dati disponibili. Invero, come più volte segnalato anche dalla Commissione Europea (anche da ultimo nel Programma di Azione 2017-2020 del febbraio 2017) uno dei maggiori ostacoli all’attuazione concreta del principio chi inquina paga attraverso la “responsabilità per danno ambientale”, e alla misurazione del grado di efficacia delle normative nazionali di derivazioni europea, è la mancanza di banche dati e di informazioni affidabili; condizione, come anticipato, essenziale affinché il meccanismo dissuasivo operi concretamente, essendo il principio “chi inquina paga” rivolto ad operatori economici e, indirettamente, al mercato delle imprese di assicurazione del rischio ambientale .

Sul punto, è stata fortemente raccomandata dalle istituzioni europee – ma non resa vincolante in nessun atto normativo – l’istituzione del Registro dei casi attinenti l’attuazione della Direttiva 2000/35/CE che però l’Italia non ha ancora adottato (né si conoscono, allo stato, proposte normative in merito).

L’alternativa alla strada giudiziaria: la scelta del Ministero di esercitare i poteri amministrativi e l’impatto sulla giurisdizione.

In realtà, la spiegazione della mancata attivazione del rimedio risarcitorio davanti al giudice civile (o davanti al giudice penale, quale parte civile) sta presumibilmente nel fatto che il Ministero dell’Ambiente ha a disposizione uno strumento alternativo all’azione civile, che è quello di esercitare il potere amministrativo ed ordinare a coloro che risultano “responsabili”, secondo il principio chi inquina paga, l’adozione delle misure di riparazione.

Si tratta dell’adozione dell’ordinanza-ingiunzione “immediatamente esecutiva” prevista dall’art. 313 del D.lgs. 152/2006 che viene adottata dopo un’istruttoria in contraddittorio e con la previsione di modalità e termini.

Viene peraltro spontaneo chiedersi perché mai il Ministero dell’Ambiente dovrebbe assumere l’iniziativa giudiziaria davanti al giudice civile, se può ottenere lo stesso risultato, svolgendo in sede procedimentale i propri poteri autoritativi, utilizzando i poteri di indagine “sul campo” e le valutazioni tecniche di organismi pubblici e governando i tempi e le modalità dell’istruttoria.

In assenza di dati utili a fare previsioni, può immaginarsi che l’azione giudiziaria civile avrà uno spazio residuale, essendo riservata alle ipotesi in cui il Ministero non si attivi con la via amministrativa nei termini perentori che sono previsti dal D.Lgs. 152/2006 (180 giorni decorrenti dalla comunicazione di avvio del procedimento o due anni dalla “notizia del fatto”: art. 313 co. 4 D.Lgs. 152/2006).

L’opzione tra i due strumenti di tutela –esercizio di poteri amministrativi/opzione A o azione civile/opzione B– è di esclusiva spettanza del Ministero dell’ambiente e non pare sindacabile dal giudice amministrativo, trattandosi di una scelta di opportunità, anche di strategie di approccio difensivo rispetto al danno ambientale.

Essa però ha un rilevante impatto sulle aspirazioni di certezza e prevedibilità degli scenari di riferimento degli operatori, con particolare riferimento proprio ai profili processuali.

Va infatti osservato che:

incide sui processi eventualmente in corso: l’adozione dell’ordinanza-ingiunzione interrompe il processi civile di risarcimento del danno ambientale, valendo di fatto come una “rinuncia all’azione”;
determina, soprattutto, il giudice, ordinario o amministrativo, avente giurisdizione sulla (medesima) controversia di danno ambientale.

Ciò in quanto, mentre l’azione di risarcimento del danno ambientale appartiene alla giurisdizione del giudice civile – secondo la tradizionale configurazione della fattispecie risarcitoria come ipotesi “speciale” di illecito civile, già adottata dal legislatore del 1986 – le controversie sulle ordinanze ingiunzioni adottate in alternativa spettano al giudice amministrativo, “in sede di giurisdizione esclusiva” (art. 133 co. 1 lett. s) del Codice del Processo Amministrativo[6]) rientrando tra quelle “speciali materie” in cui si intrecciano posizioni di diritto soggettivo e posizioni di interesse legittimo (o forse, meglio, non è definibile il perimetro tra le due categorie di posizioni soggettive) previste dall’art. 103 Cost.

Si apre, pertanto, in un’area già ampiamente offuscata nei suoi aspetti sostanziali, uno spazio di ulteriore incertezza normativa, una vera e propria “concorrenza delle giurisdizioni” civile e amministrativa (Giampietro), che è fondata sulla scelta politico-amministrativa riservata al Ministero dell’Ambiente circa le modalità della tutela; ciò senza considerare che, se il danno ambientale è attribuibile alla responsabilità di dipendenti pubblici, riemerge la giurisdizione contabile della Corte di Conti per “danno erariale” e il Ministero è tenuto interrompere anche il procedimento amministrativo, trasmettendo gli atti alla Procura Generale presso la Corte di Conti territorialmente competente.

Attuazione del principio chi inquina paga con il risarcimento del danno ambientale e profili processuali: un’occasione persa?

La stretta connessione tra la finalità riparatoria del danno ambientale e i poteri di gestione degli interventi di ripristino devoluti all’amministrazione – che è stata evidenziata dalla Corte Costituzionale con la sentenza 126/2016 – e la alternativa tra azione di risarcimento e esercizio di poteri amministrativi inducono a domandarsi se non vi sia stata un’occasione persa da parte del legislatore italiano: quella di assegnare tutta la materia del risarcimento del danno ambientale alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 103 Cost, consentendo le “esternalità positive” in termini di concentrazione della tutela e prevedibilità delle decisioni che essa comporta.

Pare in effetti che, in questa principale forma di attuazione del principio chi inquina paga, l’ unica cosa chiara è che “il legislatore ha le idee molto confuse e che la disciplina normativa è oscura” (Rossi), cosicché, privo anche dell’ombrello protettivo della certezza della scienza e dovendo disciplinare un fenomeno, quale è quello ambientale, dominato dal dinamismo anche imprevedibile, l’unico rifugio normativo sembra il ricorso – almeno nell’esperienza italiana sui grandi danni ambientali– ai poteri straordinari di emergenza che stravolgono l’ordinario assetto delle competenze e che, da provvisori, tendono a diventare stabili[7].

Resta il rischio che le lacune e le incertezze del quadro regolatorio aprano spazi eccessivamente ampi alla sfera decisionale – e tecnico-discrezionale su molti aspetti specifici, quali quelli dei criteri di determinazione delle misure ripristinatorie complementari e compensative – dell’amministrazione; ma, soprattutto, assegni ai giudici, peraltro appartenenti a plessi diversi, un ruolo suppletivo che vada oltre quello interpretativo richiesto da normative ad alto tasso di tecnicalità come quelle disciplinanti la responsabilità ambientale.

Incontri di comparazione tra diversi ordinamenti, come quello di oggi, consentono di delineare possibili aree di convergenza e focalizzare l’attenzione sulle peculiarità degli ordinamenti domestici e rappresentano, rispetto all’aspirazione alla “certezza delle regole”, un’ancora di salvataggio.

[1] E’ opinione diffusa nella letteratura giuridica che nel diritto ambientale:

– è in fibrillazione il concetto di sovranità statale, perché le problematiche ambientali – al pari di quelle finanziarie – non conoscono i confini territoriali e rivelano in modo evidente il “disallineamento tra la dimensione dei problemi e l’ambito degli assetti istituzionali che dovrebbero risolverli” (Rossi), cosicché vi è la continua ricerca del punto di equilibrio tra la gestione unitaria delle tematiche e il principio di sussidiarità, con la individuazione dell’ente più vicino all’area territoriale di riferimento;

– è in crisi il principio di legalità, poiché esso, anche nei sistemi di civil law, si nutre soprattutto del formante giurisprudenziale, essendo stati i suoi principi prima elaborati dalla giurisprudenza e poi enunciati dal legislatore; si rende evidente la sovrapposizione tra fonti nazionali, fonti del diritto europeo e fonti sovranazionali, nonché il rapporto tra le leggi generali astratte, destinate ad una veloce obsolescenza per la velocità dell’evoluzione della scienza, e le normative di dettaglio affidate anche ad atti di soft law (si pensi ai “programmi di azione” della Commissione in materia ambientale che hanno segnato la storia del diritto ambientale;

– sono difficilmente applicabili i concetti tradizionali di “bene giuridico” o di soggetto titolare dell’interesse ambientale; cosicché, per definire la situazione giuridica che è oggetto di lesione nel danno ambientale sono state utilizzate sia il diritto fondamentale all’ambiente che l’interesse legittimo alla sua protezione che, con un indirizzo che trova sempre più favore, il “dovere” di tutela nei confronti delle generazioni future.

[2] OECD Concuil Recommendation (C (72) 128) on Guiding Principles Concerning International Economic Aspects of Enviromental Policies, 26 maggio 1972, Parigi.

[3] Si tratta di un caso giudiziario più meno risalente alla stessa epoca in cui il principio chi inquina paga trovava una consacrazione negli atti di soft law del diritto internazionale: lo stabilimento di Montedison aveva scaricato residui inquinanti nel Mar Tirreno, procurando danni all’ambiente marino. Dei danni ambientali vennero chiamati a rispondere funzionari pubblici: il Comandante della Capitaneria di Porto di Livorno e il Direttore del Laboratorio di Microbiologia del Ministero dell’Agricoltura e Foreste per “omesso controllo”.

La Corte dei Conti rivendicò la propria giurisdizione, qualificando come danno pubblico erariale sia la perdita subita dall’ecosistema che i costi necessari per la riparazione. La controversia si protrasse ben oltre l’entrata in vigore della L. 349/1986 che però aveva attribuito la giurisdizione sulla responsabilità per danno ambientale e fu alla fine risolta dalle Sezioni Unite della Cassazione, quale giudice dei conflitti di giurisdizione, a favore del giudice civile, sul presupposto che il legislatore non avesse introdotto alcuna novità ma solo acclarato la natura civilistica della responsabilità per danno ambientale.

[4] In realtà, dopo un ritardo di dieci anni, uno schema di decreto è stato presentato dal Ministero dell’Ambiente al Consiglio di Stato, per l’esercizio della funzione consultiva sugli atti normativi del governo, ad ottobre 2016. Ma evidentemente le sollecitazioni contenute nel parere dirette al riesame complessivo dell’atto proposto al fine di renderlo “il più possibile comprensibile per tutti” vista la sua immediata efficacia applicativa e di specificare anche i criteri di determinazione delle misure di riparazione non hanno avuto alcun esito concreto, visto che ad oggi il decreto non ha visto la luce.

Qualora dovesse intervenire, deve però considerarsi che dovendosi applicare anche ai processi in corso, seppure relativi a condotte lesive dell’ambiente svoltesi molti anni addietro, le eventuali consulenze tecniche d’ufficio dirette a determinare le misure riparatorie compensative e complementari dovrebbero essere riviste alla luce dei nuovi criteri, con evidente aggravio di costi legali per le parti e ulteriori allungamento della durata dei processi.

[5] L’obiettivo di tale novità è bene espresso nella relazione di accompagnamento al D.lgs. 152/2006 secondo cui “l’unificazione delle iniziative di precauzione, prevenzione, istruttoria, ingiunzione del risarcimento del danno nel centro decisionale ed operativo costituito dal Ministero dell’Ambiente e di tutela del territorio impedisce il fenomeno del proliferare delle iniziative giudiziarie mosse per lo stesso fatto di danno ambientale e nei confronti dello stesso operatore da una pluralità di enti, lo Stato, le Regioni, le Province, i comuni, le comunità montane, i consorzi e dalle associazioni non governative, nonché dai singoli cittadini danneggiati personalmente”.

[6] Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (…) le controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni in materia di danno all’ambiente, nonché avverso il silenzio inadempimento del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare e per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attivazione da parte del medesimo Ministero delle misure di precauzione di prevenzione o di contenimento del danno ambientale, nonché quelle inerenti le ordinanze ministeriali di ripristino ambientale e di risarcimento del danno ambientale” (art. 133 c 1 lett.s codice del processo amministrativo)

[7] Come è noto, il più rilevante problema ambientale nazionale degli ultimi anni, costituito dall’emergenza rifiuti in Campania nella cd. “Terra dei Fuochi” è stato affrontato facendo ricorso alle fonti atipiche delle ordinanze di necessità e urgenza: lo stato di emergenza è stato dichiarato per la prima volta con d.p.c.m. 11 febbraio 1994 e sotto alcuni profili non si è ancora concluso essendo stato prorogato, sotto aspetti organizzativi, fino al 31 dicembre 2017.

Relazione italiana 3 del dott. G. Demaio – Catanzaro – 26/5/2017

Il principio chi inquina paga fra prevenzione, regolazione e riparazione

Affrontare la tematica del principio chi inquina paga risulta di non facile impostazione alla luce della oggettiva trasversalità dello stesso che spazia dal diritto internazionale a quello europeo per giungere a quello nazionale e in considerazione del suo stretto collegamento con altri principi in materia ambientale (principio di precauzione, principio dello sviluppo sostenibile etc.) che lo rendono parte di un sistema complesso volto a tutelare l’ecosistema.

L’approccio utilizzato nella presente relazione è dunque di inquadramento del principio nell’ambito della più ampia categoria della tutela ambientale che contiene in sé diversi modelli di gestione e diverse fasi; fra tutte quella preventiva, quella regolatoria e quella riparatoria.

L’interpretazione del principio ha costituito oggetto di dibattito, se pur l’orientamento prevalente in dottrina ritiene che esso sia “aperto”, nel senso che può trovare applicazione sia mediante forme di risarcimento del danno ambientale basate sulla responsabilità civile, sia mediante l’irrogazione di sanzioni amministrative, sia attraverso l’istituzione di tributi ambientali.

Infatti va da subito precisato che ai fini di tutela ambientale di certo non basterebbe prevedere solo ed esclusivamente il ristoro di un danno ambientale già avvenuto ma occorre indurre comportamenti “virtuosi” negli operatori che possano “arginare” le conseguenze negative delle loro attività produttive, specie se in re ipsa esso sono pericolose per la salute e l’ambiente.

In tale ottica la dottrina in Italia suole distinguere fra vari modelli di gestione dei problemi ambientali. In particolare individua il modello affidato al diritto privato ed il modello affidato all’intervento pubblicistico.

Circa il primo va da subito precisato che esso attiene alla fase in cui il danno è stato già prodotto. La disciplina sul danno ambientale prevista dalla Parte IV del d.lgs. 152/2006 (codice dell’ambiente), infatti, configura una responsabilità ambientale che, almeno secondo le intenzioni del legislatore, si configura di tipo civilistico fondata sul rimedio risarcitorio e di cui si occuperà in via successiva la Dott.ssa Lo Sapio con riferimento ad alcuni aspetti processuali.

Il principio chi inquina paga, pertanto, in tale accezione, si riferisce alle situazioni in cui un danno è stato cagionato, imponendo che i costi della sua riparazione siano supportati dal responsabile, in una logica di internalizzazione delle esternalità negative. Tuttavia, l’imputazione dei costi che esso comporta produce un forte incentivo per i responsabili dell’inquinamento a investire per migliorare le proprie prestazioni ambientali e per ridurre l’inquinamento. Gli agenti, sapendo di correre il rischio di essere obbligati a risarcire i danni ambientali (esternalità negative) sono indotti ad adottare le misure più opportune finalizzate a ridurre al minimo i rischi di un danno connesso alla propria attività.

Tale rimedio tuttavia mostra i suoi limiti sotto vari profili; fra tutti la circostanza che l’incertezza scientifica influisce sul nesso di causalità rendendo difficile dimostrare che il danno è la conseguenza di una certa azione ed inoltre i danni sono spesso difficilmente quantificabili o monetizzabili in un giudizio risarcitorio.
Nei documenti infatti dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico quanto in quelli comunitari tra gli strumenti di attuazione del principio non compare mai la tecnica riparatoria ma l’attenzione è volta ai meccanismi di natura amministrativa che realizzano una tutela di tipo preventivo.

In tale ottica il principio chi inquina paga concerne il fenomeno del cd. inquinamento continuo, controllabile da parte dell’apparato pubblico nella sua dimensione qualitativa e quantitativa. Non riguarda invece i danni causati da incidenti che esulano da ogni meccanismo di controllo preventivo.
Con riferimento all’inquinamento continuo l’attuazione del principio di realizza tramite strumenti idonei a realizzare una tutela di tipo preventivo.

Appare dunque corretto far riferimento anche ad altri modelli di gestione dei problemi ambientali ed in particolare a quelli affidati all’intervento pubblicistico, rientranti nel cd. command and control.
Tale modello in cui in cui rientrano i poteri autorizzatori, i poteri di pianificazione, i poteri di controllo e quelli sanzionatori, si caratterizza per la fissazione di standard, limiti o divieti generali e per la presenza del soggetto pubblico che può emanare ordinanze per fronteggiare situazione imprevedibili, imporre divieti e ordini e regolamentare l’attività dei privati.

Circa il collegamento fra il principio chi inquina paga e tale modello di tutela ambientale, va sottolineato che il d. lgs. 152/2006 all’art. 3, nell’introdurre i principi dell’azione ambientale fra cui quello de quo, statuisce che tali principi sono regola generali della materia ambientale nell’adozione degli atti normativi, di indirizzo e di coordinamento e nell’emanazione dei provvedimenti di natura contingibile ed urgente.

Sulla scorta di tale richiamo la dottrina dunque sostiene che la disciplina del codice dell’ambiente sia, innanzitutto, una disciplina procedimentale. Ed in tal senso si colloca anche l’opinione di chi (G. ROSSI) sottolinea il ruolo del decisore pubblico nella tutela dell’ambiente affermando che “la protezione dell’ambiente rappresenta il risultato di una pluralità di comportamenti virtuosi da parte dell’insieme di soggetti privati e pubblici e la funzione dell’amministrazione è quella di garantire tale risultato”.

Il tradizionale sistema di regolazione operato attraverso l’azione amministrativa, pertanto, nell’imporre il rispetto delle norme fissate dai pubblici poteri dà attuazione al principio chi inquina paga, costringendo le imprese a sopportare i costi necessari per gli opportuni adeguamenti delle strutture produttive.

Per tutelare l’ambiente, infatti, sono stati predisposti una serie di procedimenti, per lo più autorizzatori, volti a verificare la compatibilità con l’ambiente di certe attività, tentando di bilanciare gli interessi in vista di un‘ottimizzazione della tutela ambientale. Ci si riferisce, in particolare, alle procedure di VAS (valutazione ambientale strategica), di VIA (valutazione di impatto ambientale), AIA (autorizzazione integrata ambientale).

Tuttavia tale sistema non ha incontrato il consenso degli economisti che hanno ritenuto costituisca un sistema poco incentivante e hanno proposto soluzioni alternative tramite la tassazione ambientale e la compravendita dei diritti di inquinamento.

Per fare un esempio, si può considerare il caso della legge Merli (319/76) sugli scarichi, la quale avrebbe dovuto portare alla graduale eliminazione degli scarichi non a norma; tuttavia, a causa dell’eccessiva rigidità, non distingueva tra inquinanti biodegradabili e tossici, nè considerava le condizioni ambientali dei corpi ricettori e ciò portò al suo fallimento.

Si è passati, così, all’uso di strumenti di tipo economico-finanziario, idonei a garantire equilibrio tra «ambiente» e «mercato», migliorando gli standards qualitativi della tutela ambientale, giungendo alla conclusione della necessità di “instrument mix”, e cioè di un approccio multiforme che tenga in debita considerazione l’oggettiva circostanza che i problemi ambientali sono poliedrici.

Circa le tasse ambientali, giova ricordare che l’economista Pigou elaborò una prima proposta di correttivo delle diseconomie esterne in campo ambientale, prevedendo l’introduzione di imposte correttive speciali gravanti sulle attività economiche che causino effetti sociali indesiderati a terzi estranei ad ogni rapporto economico con l’attività da sottoporre a tassazione.

Ad oggi, invece, le imposizioni fiscali previste nell’ordinamento nazionale sono molte, in particolare a livello nazionale troviamo le tasse sulle emissioni di sostanze nocive (tasse sulle emissioni di anidride solforosa (SO2) e di ossido di azoto (NOx) provenienti da grandi impianti di combustione).
Al momento della loro formulazione, questi tributi necessitano di considerazioni che soppesino i vari interessi economici, sociali ed ambientali individuando le modalità e le misure più idonee per permettere appunto uno sviluppo sostenibile. Infatti la tassa che hanno una potenza termica superiore ai 50 MW, trova applicazione e regolamentazione a livello statale.

Va menzionata anche la tassa speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, altrimenti chiamata Ecotassa, istituita con la legge n. 549 del 1995, la cui finalità è espressamente ambientale, posto che la motivazione giustificatrice è data dal fine di ridurre la produzione di rifiuti, incentivarne il recupero di energia o altre materie prime dai rifiuti stessi, finanziare le opere di bonifica dei siti contaminati o le opere di recupero delle aree degradate. In particolare rappresenta un tributo ambientale in senso stretto sulla base della relazione causale e diretta che intercorre tra l’unità fisica impiegata per la commisurazione dell’imposta ed il danno cagionato all’ambiente. Sulla base infatti delle qualità e quantità di rifiuti depositati in discarica, il soggetto passivo del tributo, quale il gestore dell’attività di stoccaggio dei rifiuti, è tenuto al versamento di un ammontare pari al danno effettivo.

Tuttavia, la politica di tutela ambientale non viene attuata solo attraverso l’ausilio di tributi ambientali, bensì è possibile ricorrere ad altri strumenti per la sua realizzazione, spesso molto efficienti. I limiti della tassazione ambientale hanno spinto a impiegare degli incentivi alle imprese, per indurre i produttori a scelte che incidono meno sull’equilibrio ambientale.

Si cerca infatti, di incorporare tutti i costi ambientali prodotti durante la vita del bene, facendo sì che, anche se prodotto secondo criteri ecologici, non subisca dei danni concorrenziali, provocati dai prodotti più inquinanti.
La loro legittimazione risiede nella scelta di singoli e imprese, di porsi su un piano di “competitività non di prezzo”, essi cioè si accollano i maggiori costi derivanti dalla produzione di beni ecologicamente compatibili, dando spazio a mercati in cui i consumatori danno molto rilievo agli aspetti sociali e ambientali.

Gli incentivi possono assumere forme diverse, ad esempio si possono ricordare disposizioni che condizionano il riconoscimento di sgravi contributivi all’osservanza di norme a tutela dell’ambiente, vantaggi procedimentali alle imprese che aderiscono a sistemi di gestione ambientale, sussidi per ammodernare gli impianti di depurazione, contributi finanziari agli enti locali per costruire impianti pubblici di disinquinamento e per incentivare l’innovazione tecnologica a favore di processi produttivi meno inquinanti, senza tralasciare le politiche di promozione relative alle fonti di energie rinnovabili.

Si possono menzionare anche i finanziamenti per stimolare l’acquisto di autoveicoli eco-compatibili, agevolazioni fiscali per incitare ad un maggiore impiego di impianti fotovoltaici per la produzione di energia elettrica da fonte solare. Lo scopo è di influenzare i comportamenti dei produttori incitandoli a rivolgersi verso tecniche ed attività a minore pressione fiscale, ma utili per lo sviluppo eco-compatibile e quindi alla tutela dell’ambiente. Gli interventi sono relativi ad es. alla riqualificazione energetica complessiva di edifici esistenti, alla riduzione della perdita di energia, all’ installazione di pannelli solari, all’installazione di caldaie ad elevata efficienza.

Connessa alla scelta di politica ambientale è la creazione di un “ mercato di diritti di inquinamento”, volto a far sì che le imprese negozino quote di inquinamento, se non considerano più conveniente o non riescano a limitare in altro modo le emissioni inquinanti della loro produzione. Le autorità competenti o con norme o con regolamenti stabiliscono il livello massimo di inquinamento tollerato e rilasciano un certo numero di permessi di inquinamento che corrispondono a quote di inquinamento consentito, lasciando poi alle singole imprese la scelta se investire in tecnologie ecologiche, in impianti di depurazione oppure acquistare i permessi .

Il cd. Emission Trading Scheme, cioè il sistema dei permessi negoziabili, assieme alle tasse ambientali, influenza un comportamento ecologicamente corretto, garantendo il rispetto di un limite di inquinamento, che altrimenti, sarebbe stato violato. Ogni impresa, sulla base di un’analisi dei costi e benefici, deve optare o per l’acquisto o la vendita nel mercato di una quota di inquinamento (imprese con maggiore costo di disinquinamento tendono a comprare), oppure rivolgersi a forme alternative di produzione meno inquinanti (imprese con costi minori tendono a vendere).

Esso prevede determinate quote di CO2 che le imprese possono produrre, eventualmente comprando quelle necessarie per coprire le quote in eccesso. Ovviamente a strumenti diversi corrispondono costi e benefici diversi. Mentre i permessi negoziabili richiedono maggiori controlli, pur garantendo maggiore certezza di risultati, i tributi sono più facilmente applicabili e influenzano maggiormente i comportamenti e garantiscono una produzione di gettito, ottenibile dai primi solo attraverso un’asta pubblica delle quote.

Nell’ambito dei permessi rientrano i cd Certificati verdi, disciplinati dall’art 11 del d.lgs.16 marzo 1999 n. 79, che impone a coloro che producono o importano energia elettrica da fonte non rinnovabile di immettere ogni anno nel sistema elettrico nazionale una quota di energia prodotta da fonti rinnovabili. Il Gestore dei servizi elettrici, rilascia infatti ai produttori in possesso di tali impianti IAFR tali certificati verdi, i quali, hanno la peculiarietà di poter essere oggetto di scambio e di negoziazioni bilaterali da parte di produttori che non possono o non ritengono opportuno investire in impianti di energia rinnovabili, ma gravati dall’obbligo di legge.

L’obbligo di legge, pertanto, può essere adempiuto o attraverso la produzione/immissione diretta di elettricità da fonti rinnovabili e/o acquistando diritti rilasciati ad altri produttori di energia rinnovabile (la cui produzione, evidentemente, eccede la loro quota-dovuta). Lo scopo è quello di incrementare il ricorso a fonti di energia rinnovabili, sulla base di un obbligo di legge. I produttori in tal modo ricevono un finanziamento in ragione dell’energia pulita prodotta, che si aggiunge alla vendita dell’energia generata.

Un ulteriore meccanismo di tutela ambientale è il sistema di cauzioni. Tale strumento è stato per lo più utilizzato per la riduzione dei costi. Un esempio è la cauzione sui contenitori di bevande, in particolare di vetro, consiste in un deposito all’atto dell’acquisto ed un rimborso all’atto della restituzione del contenitore. Impiegato per lo più in un ‘ottica preventiva, combina in sé elementi propri della tassazione e del sussidio e ne massimizza i vantaggi, consentendo di raggiungere gli effetti tipici di una tassa, tuttavia garantendone il rimborso perciò più facilmente sopportabile dai consociati.
Permette il recupero a costo ridotto di materiali difficilmente smaltibili, senza danni ambientali, un esempio sono, le batterie esauste, ovvero le ipotesi in cui si voglia ottenere il riciclaggio per evitare un inutile spreco di risorse facilmente riciclabili, quali, ad esempio, il vetro o l’alluminio. L’ iniziativa può essere degli stessi operatori economici privati (per finalità economiche),oppure di quelli pubblici per incentivare il riciclaggio.

Da ultimo occorre aggiungere qualche osservazione circa le fasi finali di attuazione del principio chi inquina paga, e cioè quella della riparazione e del ripristino.

L’azione di riparazione, così come delineata dal codice dell’ambiente, comprende due tipologie di iniziative, quelle volte a “controllare, circoscrivere, eliminare o gestire in altro modo, con effetto immediato” gli inquinanti o qualsiasi altro fattore di danno da una parte e, dall’altra le vere e proprie misure di riparazione, a seconda della tempestività dell’intervento. L’autorità competente può approvare le misure di riparazione proposte dall’operatore o deciderle essa stessa anche con la sua collaborazione.

La riparazione del danno all’acqua o alle specie e agli habitat naturali protetti consiste nel riportare l’ambiente alle condizioni originarie e ciò è possibile tramite tre misure di riparazione.
In primis vi è la riparazione “primaria”, costituita da misure in grado di riportare le risorse e/o i servizi danneggiati alle condizioni originarie o verso esse.
Segue la riparazione “complementare”, consistente in qualsiasi intervento finalizzato a compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati. Lo scopo è quello di ottenere, se opportuno anche in un sito alternativo, un livello di risorse naturali e/o servizi analogo a quello che si sarebbe ottenuto se il sito danneggiato fosse tornato alle condizioni originarie.
Da ultimo vi è la riparazione “compensativa”, comprendente qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita contemporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo, vale a dire fino al momento in cui le risorse e/o i servizi siano stati ripristinati o almeno ricondotti verso le condizioni originarie.
Le perdite temporanee sono quelle che derivano dal mancato svolgimento delle normali funzioni ecologiche o dalla mancata fornitura di servizi ad altre risorse naturali o al pubblico. La compensazione, dunque, consiste in ulteriori miglioramenti delle risorse naturali nel sito danneggiato o in un sito alternativo, non è una compensazione finanziaria al pubblico.

Le azioni di riparazione primaria da intraprendere sono quelle utili a riportare direttamente le risorse naturali e i servizi alle condizioni originarie in tempi brevi o tramite il ripristino naturale.

In tali casi, l’autorità competente può prescrivere il metodo, ad esempio la valutazione monetaria, per determinare la portata delle necessarie misure di riparazione complementare e compensativa. Se tuttavia la valutazione delle risorse di sostituzione non può essere eseguita in tempi e a costi ragionevoli, l’autorità competente può scegliere misure di riparazione il cui costo sia equivalente al valore monetario stimato delle risorse e/o servizi perduti.

La scelta delle opzioni di riparazione dovrebbe avvenire con l’aiuto delle migliori tecnologie disponibili, valutando una serie di criteri: l’effetto sulla salute e la sicurezza pubblica; il costo di attuazione; la probabilità di successo, la misura in cui ciascuna opzione impedisce danni futuri e collaterali in seguito alla sua attuazione; la misura in cui giova ad ogni componente della riosrsa naturale e/o del servizio; la misura in cui ciascuna opzione tiene conto dei pertinenti aspetti sociali, economici e culturali e di altri fattori specifici della località; il tempo necessario per l’efficace riparazione del danno ambientale; la misura in cui ciascuna opzione realizza la riparazione del sito colpito dal danno; il collegamento geografico al sito danneggiato.

In deroga a quanto appena descritto, l’autorità competente può decidere di non intraprendere ulteriori misure di riparazione qualora, a seguito delle misure già adottate, non esiste più un rischio significativo di effetti nocivi per la salute umana, l’acqua, le specie e gli habitat naturali protetti e i costi delle misure di riparazione primaria siano sproporzionati rispetto ai vantaggi ambientali ricercati.

In applicazione del principio comunitario “chi inquina paga”, il D.lgs 152/2006 stabilisce che i costi necessari per realizzare le misure di prevenzione e ripristino ambientale sono posti a carico dell’operatore responsabile del danno anche esercitando l’azione di rivalsa, qualora le spese siano anticipate per garantire un intervento immediato nel caso in cui il responsabile rimanga inerte o non sia individuato.

In conclusione va ricordato l’opinione di autorevole dottrina (FRACCHIA) secondo cui l’approccio a molti problemi ambientali richiede l’apporto della scienza, la quale non è in grado di dare certezze assolute. Le altre caratteristiche dei problemi ambientali sono la globalità e le asimmetrie informative. Infatti i problemi ambientali hanno un carattere globale ed una profondità temporale e spaziale per cui noi subiamo gli effetti ambientali di comportamenti tenuti da altri in tempo diverso o luogo diverso dal nostro.
Basti pensare al rapporto fra il fenomeno del global warming e le prospettive per le generazioni future. Come conseguenza di ciò diventa difficile individuare i responsabili e inoltre i pregiudizi causati hanno molto spesso carattere diffuso.
In tale contesto compito del diritto, dunque, è anche quello di “attutire” e di “gestire” gli effetti collegati a cause su cui non si può incidere (terremoti etc..) posto che in tale settore rileva, altresì, il tema delle asimmetrie informative che possono colpire chi è danneggiato da un problema ambientale o il decisore pubblico che non hanno le necessarie informazioni per decidere o provare un danno.

Relazione francese del dott. Dubois – Verdier – Catanzaro 26/05/2017

LE PRINCIPE DU POLLUEUR PAYEUR EN FRANCE

PRELIMINAIRES :

Care colleghe e cari colleghi,

Liebe Kolleginnen und Kollegen

Chères collègues,
1. A l’origine : un principe économique

Le principe du pollueur-payeur est apparu dans l’histoire au XIXème siècle comme un principe économique, qui consiste à faire prendre en compte par chaque acteur économique les externalités négatives de son activité. Son principe a été développé par l’économiste libéral Arthur Cecil Pigou au début des années 1920.

Ce n’est qu’un principe économique, qui signifie simplement que l’entrepreneur/pollueur doit prendre en compte, dans son calcul économique, le coût de la pollution, qui reste supporté par la collectivité. Les économistes parlent d’internalisation.
2. La consécration du principe au niveau international au XXème siècle

– Le principe du pollueur-payeur va devenir au fil du temps un des principes essentiels qui fondent les politiques environnementales dans les pays développés.

– Une étape essentielle est, en juin 1992, à Rio de Janeiro (Brésil), la Conférence des Nations Unies connue sous le nom de Sommet “planète Terre”, qui a adopté une déclaration dans le domaine de l’environnement. L‘accent est mis sur deux principes fondamentaux : le principe de précaution et le principe pollueur-payeur.

3. La consécration du principe sur le plan européen

– C’est le Traité de l’Union européenne ou Traité de Maastricht (signé le 7 février 1992 & entré en vigueur le 1er novembre 1993), qui intègre dans l’article 130R, devenu l’article 174, (aujourd’hui l’article 191 du Traité de l’Union Européenne) les principes suivants dans le domaine de l’environnement : la politique européenne en matière d’environnement “est fondée sur les principes de précaution et d’action préventive, sur le principe de la correction, par priorité à la source, des atteintes à l’environnement et sur le principe du pollueur-payeur.”

Avec sa consécration sur le plan européen que le principe du pollueur payeur va devenir véritablement un principe juridique, qui impose au pollueur l’obligation de payer un prix pour la pollution qu’il engendre.

– Il appartient naturellement à la jurisprudence de la cour de justice de l’Union européenne de préciser et d’interpréter ces directives.Parallèlement ou par la suite, d’autres directives à portée environnementale ont réaffirmé le principe du pollueur payeur. Par exemple la directive 2006/12/ce du parlement européen et du conseil du 5 avril 2006, relative aux déchets : J’y reviendrai
4. L’application du principe en France : un principe à valeur constitutionnelle

– C’est dans le cadre ainsi fixé par le Traité de l’Union européenne, ainsi que par les directives du Parlement et du Conseil européens, que le principe du pollueur payeur va être introduit dans le droit français. Rappelons que, selon les règles du droit européen, ces textes sont d’application directe et que, par exemple, les requérants peuvent les invoquer devant les juridictions françaises, sans qu’il soit nécessaire qu’un texte de droit interne vienne les transposer : C’est ce que l’on appelle l’effet direct du droit européen en droit interne.

Les directives européennes étant des textes généraux, qui définissent des objectifs en laissant aux Etats membres le soin de les réaliser, ce sont des textes de droit interne qui vont être pris pour mettre en application le principe du pollueur payeur : c’est le mécanisme de la transposition. Cela signifie, par exemple, que pour transposer une directive en droit français vont être adoptés une loi, des décrets, des arrêtés, etc.

– Ce qui vient faire la particularité de l’introduction du principe du pollueur payeur en France, c’est qu’il est aujourd’hui inscrit dans la Constitution. En effet en 2004, a été adopté un texte de rang constitutionnel, la Charte de l’environnement, avec un article 4 : « Toute personne doit contribuer à la réparation des dommages qu’elle cause à l’environnement dans les conditions définies par la loi. ».

Ce texte avait fait l’objet d’un engagement électoral pendant la campagne présidentielle de 2002 par le président sortant Jacques Chirac. Après sa réélection, le président Chirac a fait adopter ce que l’on appelle la Charte de l’environnement, en mars 2005, par le Parlement réuni en Congrès à Versailles, dans le cadre d’une révision de la Constitution française de 1958.

La charte reprend un certain nombre de droits ou de principes dits de la « 3e génération » (les Droits de l’homme de 1789 étant la première génération et les droits sociaux du XXe siècle, la deuxième)[3].

Quelle est la portée de cette élévation du principe « pollueur payeur » au rang constitutionnel ?

Au début, pour beaucoup de commentateurs, dans le cadre du système juridique d’alors (je parle des années 2004 et suivantes), où le contrôle de constitutionnalité en France avait une portée relativement limitée, la charte a été considérée comme un texte se bornant à proclamer un “principe général», sans que ce principe, en lui-même, ait une portée pratique réelle.

Mais dans une décision n° 2008-564, du 19 juin 2008, le Conseil constitutionnel a mis fin à certains commentaires selon lesquels la Charte n’est pas du droit mais du bavardage, en affirmant la « valeur constitutionnelle de la Charte. » En conséquence et par la suite, le Conseil d’Etat, dans une décision du 3 octobre 2008, « Commune d’Annecy », a pleinement reconnu à son tour cette valeur constitutionnelle de la charte.

Cette élévation de la Charte au niveau constitutionnel n’est toutefois pas sans poser quelque problème. En effet, beaucoup d’articles de la Charte renvoient au législateur le soin de définir les conditions et limites de mise en œuvre des principes qu’elle proclame.

Ainsi le juge administratif subordonne-t-il la possibilité pour les requérants d’invoquer certains articles 1er, 2, 6 et 7 de la Charte à l’adoption d’une loi pour en assurer la mise en œuvre. Ce faisant, le juge administratif applique dans certaines espèces la théorie dite de la « loi écran », ce qui signifie qu’un écran législatif s’intercale entre les actes administratifs contestés et la Constitution : la légalité des actes administratifs sera examinée par rapport aux dispositions législatives de concrétisation.

En ce qui concerne plus particulièrement le principe du pollueur payeur, contenu dans l’article 4 de la Charte, comment se prononcerait sur ce point le Conseil constitutionnel, organe qui est chargé en France de contrôler la conformité des lois à la constitution ? Rappelons que le contrôle de constitutionnalité a connu en France, depuis la révision constitutionnelle de 2008 et l’introduction de la question prioritaire de constitutionnalité, une extension notoire, puisque la réforme a donné, en droit français, la possibilité à un requérant de soulever, par le biais de la question prioritaire de constitutionnalité, l’inconstitutionnalité d’une disposition d’une loi déjà adoptée par le Parlement, ce qui auparavant n’était pas possible.

Pour l’instant, il n’y a pas de jurisprudence où le Conseil constitutionnel se soit directement prononcé sur l’article 4 de la Charte, relatif au principe du pollueur payeur.

Le principe du pollueur payeur sera-t-il considéré comme directement applicable par le Conseil constitutionnel ? Il faut remarquer que contrairement à d’autres principes généraux du droit de l’environnement, comme le principe de précaution, le principe de solidarité écologique, etc, ce principe paraît nettement plus précis et peut s’analyser comme une véritable règle de droit. Cependant, il faut également remarquer que la Charte de l’environnement renvoie expressément l’application du principe pollueur-payeur à l’adoption d’une loi.

Ce qui pourrait théoriquement se produire, c’est un problème de conflit entre le traité de l’Union européenne, les textes de droit européen dérivé (comme la directive) d’une part et la constitution française d’autre part.

S’il a toujours admis la supériorité du droit européen sur les lois et les règlements, le Conseil constitutionnel s’est toujours refusé à admettre la supériorité du droit européen sur la constitution française.

Pour sa part, la jurisprudence du Conseil d’Etat français admet, dans ce qu’on appelle le contrôle de conventionalité, la supériorité du droit européen (Traité, droit européen dérivé) sur les lois internes votées par le parlement français. Cela signifie qu’il se reconnaît le pouvoir d’écarter l’application d’une loi contraire aux traités de l’Union. En revanche, le même Conseil d’Etat s’interdit d’examiner la conformité d’un engagement international à la constitution française (théorie de l’écran conventionnel) cf jurisprudence Fédération nationale de la libre pensée. Mais la jurisprudence du Conseil d’Etat a introduit une dérogation à ce principe dans la jurisprudence Arcelor, inspirée par la jurisprudence du conseil constitutionnel, elle-même inspirée de la JP du Bundesfassungsgericht allemand.

En ce qui concerne le Conseil d’Etat français, celui-ci contrôle traditionnellement la constitutionnalité des actes administratifs. Dans le cas où un acte administratif est fondé directement sur une directive européenne, par exemple, il peut arriver que des requérants soutiennent devant le juge administratif que cet acte administratif, et ipso facto, la directive européenne, sont contraires à la constitution française. Pour résoudre le problème, le Conseil d’Etat applique une théorie dite de la translation : le Conseil d’Etat se demande s’il existe ou non dans le droit de l’Union Européenne un équivalent à la disposition constitutionnelle invoquée (cf arrêt de la cour de Karlsruhe Solange II). Si la règle constitutionnelle a un équivalent dans le droit communautaire, (comme le principe d’égalité par exemple), le juge administratif vérifie, le cas échéant en posant une question préjudicielle à la Cour de justice de Luxembourg, que l’acte administratif et la directive qu’il transpose respectent les règles constitutionnelles et européennes. Si la directive, dont le décret attaqué assure la transposition, ne méconnait pas le principe communautaire d’égalité, le Conseil d’Etat écarte alors le moyen selon lequel ce décret serait contraire au principe constitutionnel d’égalité. En l’absence d’équivalent, le juge administratif français contrôlera normalement la constitutionnalité de l’acte attaqué. Cette réserve de constitutionnalité[1] conforte la position traditionnelle du Conseil d’État sur la primauté de la Constitution.

En ce qui concerne le principe du pollueur payeur, le principe constitutionnel posé dans l’article 4 de la charte française de l’environnement[2] devrait logiquement trouver son équivalent dans l’article 191 du Traité de l’Union Européenne, lequel, comme on l’a dit, prévoit la politique européenne en matière d’environnement “est fondée … sur le principe du pollueur-payeur” et permettre une opération de translation. On ne peut que poser la question en l’état actuel de la jurisprudence.

Le principe du « pollueur payeur » dans le code de l’environnement

– Aujourd’hui, en France, le principe figure, en tant que principe général à l’article L 110-1 du code de l’environnement, qui a repris les dispositions d’une loi dite « loi Barnier » qui, historiquement et bien avant le code et la Charte de l’environnement, a été la première à introduire, dès 1975, le principe du pollueur payeur dans le droit français.

Il faut insister sur le processus de codification, qui fait donc que beaucoup de lois sont regroupées aujourd’hui en droit français dans des codes : code du travail, code général des impôts, code général des collectivités territoriales, code de l’urbanisme, etc, dont le nombre ne cesse de s’amplifier. La base de données LEGI comprend 73 codes officiels en vigueur consolidés (et 29 autres abrogés) ! Ce processus de codification a pour avantage de fixer et d’organiser en un texte unique différents textes épars, mais il a aussi comme inconvénient d’accroitre la complexité : les codes ont en effet tendance à s’alourdir de plus en plus au fil des années, de sorte que l’on parle aujourd’hui de la nécessité de les alléger dans l’espoir de les restreindre à quelques principes et règles fondamentales. La réforme du code du travail, si débattue aujourd’hui, pourrait s’attaquer à ce problème de la complexité.

Pour notre matière, la proclamation du principe du pollueur payeur se situe dans le premier article du code de l’environnement, tout en tête, au 3° de l’article L 110-1, , juste après le principe de précaution et le principe d’action préventive et de correction.

L’esprit du principe va en quelque sorte irradier tout le code et servir de base à plusieurs procédures prévues par celui-ci en matière d’environnement :

Quelles sont ces procédures ?

Pas question de toutes les citer.

Je me limiterai à mentionner :

– La prévention et réparation de certains dommages causés à l’environnement : article L.160-1 du code de l’environnement, créé par une loi du 1er août 2008, dite de responsabilité environnementale[3]. Ce texte est la transposition de la directive du Parlement et du Conseil européens du 21 avril 2004. A noter, les textes qui organisent cette procédure citent expressément le principe du pollueur payeur.

Cette procédure, qui institue une véritable police spéciale de l’environnement, a pour objet de prévenir les atteintes aux eaux, aux sols ainsi qu’aux espèces et espaces protégés. La notion d’environnement est ainsi conçue de manière restrictive, en excluant notamment les atteintes à l’atmosphère.

Pour cette catégorie de dommages à l’environnement, la mise en œuvre du principe pollueur payeur se traduit essentiellement sous deux aspects :

Le code donne à l’autorité environnementale (c’est en général le ministre ou le préfet) des pouvoirs de police administrative très étendus. C’est donc sous l’angle de la notion de droit administratif français de police administrative que sont mis en œuvre les dispositions en cause. Si le responsable n’obtempère pas, l’autorité environnementale peut, en cas d’urgence ou de danger grave, prendre elle-même, aux frais de l’exploitant défaillant, les mesures de prévention ou de réparation nécessaires (Article L162-16), conformément au principe du pollueur payeur.
Le coût des mesures de prévention et de réparation est très précisément défini (cf articles L 162-17 du code de l’environnement).

C’est l’exploitant (à ce stade, c’est le terme même de la directive qui est repris) qui supporte les frais très précisément énumérés (soit les frais liés à l’évaluation des dommages, la détermination, la mise en œuvre et le suivi des mesures de prévention et de réparation ; le cas échéant, aux procédures de consultation ; le cas échéant, aux indemnités versées aux propriétaires privés avoisinants. Il est prévu la répartition des coûts en cas de pluralité des exploitants ayant causé le dommage).

Enfin, sont prévues des procédures de recouvrement à l’encontre des exploitants. L’exploitant lui-même peut recouvrer par toutes voies de droit appropriées, auprès des personnes responsables, le coût des mesures de prévention ou de réparation qu’il a lui-même engagées, lorsqu’il peut prouver que le dommage ou sa menace imminente est le fait d’un tiers.

Cette police spéciale de l’environnement n’est pas la seule qui figure dans le code français de l’environnement.

Tout au long du code, on va trouver d’autres procédures mettant en œuvre le principe du pollueur payeur.

On peut citer :

– La police des installations classées figurant aux articles L 511-1 et suivant du code de l’environnement : procédure que le juge administratif français connaît bien, car elle est traditionnellement source de contentieux.

Le principe du pollueur payeur trouve à s’appliquer au niveau des sanctions que peut prendre le pouvoir de police spéciale exercé par le préfet à l’encontre de l’installation polluante.

– La police des déchets :

Cette procédure est la réception en droit interne français de la directive 2006/12/ce du Parlement européen et du Conseil du 5 avril 2006, relative aux déchets, qui met la responsabilité de la gestion des déchets à la charge de ceux qui les produisent (soit les producteurs) ou de ceux qui les détiennent (soit les détenteurs) :

Le principe (du pollueur payeur) est mis en œuvre selon une procédure très détaillée par l’article L.541-3 du code de l’environnement :

L’administration dispose de pouvoirs de police très étendus pour contraindre le producteur ou le détenteur de déchets abandonnés ou mal gérés, après procédure contradictoire, à effectuer les opérations nécessaires au respect de la réglementation. A cet effet, l’administration dispose de pouvoirs de contrainte efficaces : elle peut l’obliger à consigner entre les mains d’un comptable public les sommes nécessaires qui lui sont restituées au fur et à mesure de l’exécution des mesures ordonnées. Et l’administration peut faire procéder d’office, en lieu et place de la personne mise en demeure et à ses frais, à l’exécution des mesures prescrites. En outre, sur le plan des sanctions financières, l’administration peut ordonner le versement d’une astreinte journalière ainsi qu’une amende allant jusqu’à 150 000 €.

L’exécution des travaux peut être confiée par le ministre chargé de l’environnement à un Agence de l’environnement et de la maîtrise de l’énergie.

– Le statut de l’énergie nucléaire dans le code de l’environnement mériterait de longs développements. La gestion des déchets, qu’ils soient radioactifs ou non, est encadrée par les articles L. 541-1 et suivants du code de l’environnement, dans le cadre de la directive 2011/70/Euratom du 19 juillet 2011.

Dans tous ces textes figurant dans le code de l’environnement, il y a des variations en ce qui concerne les termes employés pour désigner la personne à qui va incomber le paiement des divers frais, en vertu du principe du pollueur payeur. C’est ce qui va être source de débats devant les juridictions administratives françaises. Nous y reviendrons plus loin en analysant la jurisprudence du Conseil d’Etat.

L’application du principe « pollueur payeur » en France sur le plan fiscal : la fiscalité écologique

Il peut paraître peut-être paradoxal d’aborder, dans le cadre d’un thème discuté par des juges administratifs allemands, italiens et français, de la fiscalité, alors que nos collègues italiens et allemands ne traitent pas, contrairement aux juges administratifs français, du contentieux des impôts. Mais dans le cadre d’une étude sur le principe du « pollueur payeur », il est impossible de ne pas au moins évoquer la mise en œuvre de ce principe sous l’aspect fiscal. C’est ce qu’on appelle la fiscalité écologique.

Il n’est pas question de faire ici la liste de toutes les taxes, crédits d’impôt, réductions de taxe, bonus, etc. visant à inciter les comportements favorables à l’environnement institués en France pour mettre en place le principe du pollueur payeur.

Je me limiterai à citer deux taxes écologiques ou tentatives de taxes écologiques :

– La taxe d’enlèvement des ordures ménagères, qui devrait résonner familièrement aux oreilles de nos collègues italiens, habitués à jongler avec la TARI, (tassa sui rifiuti), la TIA (Tariffa di igiene ambientale) et la TARSU (Tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani) et le TARES (Tributo comunale sui rifiuti e sui servizi). Cette taxe d’enlèvement des ordures ménagères (TEOM) devrait intégrer dorénavant une part variable incitative pour prendre en compte la nature, le poids, le volume et le nombre d’enlèvements des déchets, en application du principe pollueur payeur.

– La taxe poids lourds : Cette taxe, lorsqu’elle a été instituée, a rencontré dans une région française, à savoir la Bretagne, l’opposition farouche d’un mouvement dit des Bonnets rouges. Cette taxe, appelée couramment « écotaxe », elle a été critiquée à la fin 2013 dès avant sa mise en œuvre ; elle devait s’applique aux véhicules de transport de marchandises de plus de 3,5 tonnes circulant en France sur certaines routes nationales et départementales. Elle visait à faire payer l’usage de ces routes par leurs utilisateurs en leur faisant supporter les coûts réels du transport routier de marchandises alors que ce coût est aujourd’hui intégralement supporté par l’impôt commun. À l’automne 2013, des manifestations et sabotages ont été organisés en Bretagne, à la suite de quoi le gouvernement a décidé de geler sa mise en place pour finalement être suspendue par la ministre de l’Écologie, Ségolène Royal, le 9 octobre 2014. [ Cet échec survient en France alors que des pays proches (Allemagne, Autriche, Pologne puis Belgique) ont su mettre en place un dispositif équivalent.

– En dépit du principe pollueur-payeur admis en France, les taxes sur les pollutions émises sont de peu d’importance, tandis qu’à titre de comparaison, elles comptent pour près de 20 % des revenus fiscaux aux Pays-Bas[6]. Cette fiscalité écologique ne représente également que 4,2 % des prélèvements obligatoires en France, contre 6,2 % en moyenne européenne (selon Eurostat[4] et le système statistique unifié européen[2]).

– Aux taxes, produits à caractère fiscal, il faut ajouter les redevances. On peut citer par exemple :

– La redevance pour la pollution domestique de l’eau payée par tous les usagers, les redevances permettent aux agences de l’eau de soutenir les actions pour lutter contre la pollution des eaux, protéger la santé, préserver la biodiversité et garantir la disponibilité de la ressource. Payée par les habitants des communes et par certaines activités de service ou de commerce relèvent aussi de cette redevance. La redevance est proportionnelle à la consommation d’eau. Elle est calculée sur le volume d’eau consommé par chaque habitant. La redevance pour pollution d’origine domestique est intégrée à la facture d’eau des abonnés. Le service d’eau potable perçoit cette redevance pour le compte des agences de l’eau.

La jurisprudence

Je vais me concentrer essentiellement sur la jurisprudence du Conseil d’Etat, qui a eu à plusieurs reprises à trancher la question de savoir, dans diverses espèces, à quelles personnes exactement s’appliquent les obligations entraînées par le principe pollueur payeur et notamment dans quelle mesure elles peuvent s’appliquer au propriétaire du produit polluant ou du terrain les supportant.

– 9 mars 2009 commune de Batz sur Mer : décision rendue à propos des hydrocarbures accidentellement déversés en mer à la suite du naufrage de l’Erika.

Le principe du préjudice écologique a été en France affirmé lors du procès de l’Erika (pétrolier affrété par le groupe Total et responsable en 1999 d’une marée noire qui a souillé 400 km de côtes). Le caractère de préjudice écologique a été confirmé en 2012 par la Cour de Cassation[6] (via sa chambre criminelle). Dans ce cadre, la Cour de cassation a également considéré que l’intervention des juridictions françaises était légitime dès lors que le territoire français subissait un préjudice environnemental.

Le Conseil d’Etat s’est lui aussi prononcé sur cette affaire.

Pour l’application de dispositions législatives du code de l’environnement, transposant la directive 75/442/CEE du Conseil du 15 juillet 1975, relative aux déchets, le Conseil d’Etat se fonde sur l’’interprétation de cette directive par la Cour de justice des communautés européennes pour juger que des hydrocarbures accidentellement déversés en mer à la suite d’un naufrage, mélangés à l’eau et aux sédiments et dérivant jusqu’au littoral, constituent des déchets dont le détenteur est le propriétaire du navire lequel était, en fait, en possession des hydrocarbures immédiatement avant qu’ils ne deviennent des déchets et qui peut donc, pour cette raison, être considéré comme les ayant produits.

Le Conseil a ajouté que le vendeur des hydrocarbures et affréteur du navire les transportant peut être regardé comme producteur des déchets, au sens de l’article 1er, sous b), de la directive 75/442 et, ce faisant, comme un “détenteur antérieur” tenu de supporter le coût de l’élimination des déchets s’il a contribué au risque de survenance de la pollution.

Le Conseil d’Etat a enfin estimé que, en vertu du principe du pollueur-payeur, le producteur des hydrocarbures (produit générateur de déchets), s’il a contribué à ce même risque, doit être tenu de supporter la partie des frais qui n’aurait pas été prise en charge soit par le propriétaire du navire et/ou par l’affréteur, soit par le Fonds international d’indemnisation pour les dommages dus à la pollution par les hydrocarbures, mais qu’il ne saurait se voir imposer la réalisation matérielle des opérations de valorisation ou d’élimination ;

– 26 juillet 2011 Commune de Palais sur Vienne Le Conseil rappelle le principe du pollueur payeur prévu à l’article 15 de la directive 2006/12/CE du 5 avril 2006 relative aux déchets. Il juge que le propriétaire du terrain sur lequel ont été entreposés des déchets peut, en l’absence de détenteur connu de ces déchets, être regardé comme leur détenteur au sens de l’article L. 541-2 du code de l’environnement, notamment s’il a fait preuve de négligence à l’égard d’abandons sur son terrain.

– 1er mars 2013 Hussong d’une part et Sociétés Natiocrédimur et Finamur d’autre part : Dans ces deux espèces, le Conseil d’Etat se prononce sur le responsable des déchets au sens de l’article L. 541-3 du code de l’environnement, tel qu’interprété à la lumière des dispositions de la directive 2006/12/CE du 5 avril 2006. Le responsable des déchets s’entend des seuls producteurs ou autres détenteurs des déchets. En l’absence de tout producteur ou tout autre détenteur connu de déchets, c’est le propriétaire du terrain sur lequel ont été entreposés ces déchets peut être considéré comme leur détenteur au sens de l’article L. 541-2 du code de l’environnement, notamment s’il a fait preuve de négligence à l’égard d’abandons sur son terrain, et être de ce fait assujetti à l’obligation d’éliminer ces déchets. Mais la responsabilité du propriétaire du terrain au titre de la police des déchets ne revêt cependant qu’un caractère subsidiaire par rapport à celle encourue par le producteur ou les autres détenteurs de ces déchets et peut être recherchée s’il apparaît que tout autre détenteur de ces déchets est inconnu ou a disparu.
CONCLUSION

Le principe du pollueur payeur est un vieux principe, puisqu’en tant que principe économique, il remonte au XIXème siècle. En tant que principe juridique, il a fait son apparition dans la deuxième moitié du XXème siècle. On remarquera d’une part qu’il est relativement précis dans son contenu par rapport à d’autres principes en droit de l’environnement et d’autre part qu’il est consacré au plan européen. Donc ce principe n’est certainement pas un principe du passé, mais il apparaît au contraire comme pleinement actuel et même (malheureusement) un principe d’avenir.

Das Verursacherprinzip ist ein altes Prinzip, denn als wirtschaftliches Prinzip, es zurück zum neunzehnten Jahrhundert geht. Als Rechtsgrundsatz hat es in der zweiten Hälfte des zwanzigsten Jahrhunderts erscheint. Beachten Sie, es relativ genau in Inhalt ist im Vergleich zu anderen Prinzipien im Umweltrecht und auch auf europäischer Ebene verankert. So ist dieses Prinzip sicherlich kein Prinzip der Vergangenheit, aber es scheint eher als vollständig vorhanden und auch (leider) ein Prinzip für die Zukunft.

Il principio chi inquina paga è un vecchio principio, siccome come principio economico, risale al XIX secolo. Come principio giuridico, è apparso nella seconda metà del ventesimo secolo. Si puo notare che da una parte, è relativamente accurato nei contenuti rispetto ad altri principi di diritto ambientale e d’altra parte, è sancito anche a livello europeo. In tal modo questo principio non è certamente un principio del passato, ma appare piuttosto come pienamente un principio del presente ed anche, purtroppo, se questo pianeta viene pervaso da un processo di degrado e inquinamento sempre maggiore, come un principio per il futuro.

Jean-Michel DUBOIS-VERDIER

Présidente honoraire du tribunal administratif de Toulon (France)

Texte de l’intervention orale prononcé lors du colloque organisé par l’AJAFIA à Catanzaro (Italie), le 29 mai 2017.

[1] Pour reprendre une expression de Jean Sirinelli.

[2] « Toute personne doit contribuer à la réparation des dommages qu’elle cause à l’environnement dans les conditions définies par la loi. ».

[3] Plus globalement, la loi de 2008 a défini ce que l’on appelle le préjudice écologique.

Relazione tedesca della dott.ssa Nadeschda Willkitzki – Catanzaro 26/06/2017

Das Verursacherprinzip im Umweltrecht in Deutschland

Sehr geehrte Damen und Herren, liebe Kolleginnen und Kollegen,

Ich referiere heute für Sie über das Verursacherprinzip im Umweltrecht in Deutschland. Am Rande werden auch europarechtliche Bezüge eine Rolle spielen. Der Vortrag will insbesondere einen Überblick geben über das im Umweltrecht geltende grundlegende Prinzip und seine Einbettung in das Umweltrecht insgesamt sowie seine Ausgestaltung in den verschiedenen Teilgebieten des Umweltrechts.

Das Verursacherprinzip ist neben dem Vorsorgeprinzip und dem Kooperationsprinzip eines von drei grundlegenden Prinzipien im Umweltrecht.

Zunächst zum Vorsorgeprinzip: Das Vorsorgeprinzip als materielles Leitprinzip fordert, dass umweltpolitische Maßnahmen derart zu gestalten sind, dass Gefahren für die Umwelt vermieden und damit die natürlichen Grundlagen schonend in Anspruch genommen werden. Es sollen drohende Gefahren abgewehrt und bereits bestehende Schäden beseitigt werden. Entwicklungen, die zu Umweltbelastungen führen können, sollen durch vorausschauendes Handeln verhindert werden. Ein frühzeitiges behördliches Einschreiten ist gerade bezweckt, so dass die behördliche Befugnisschwelle vorverlagert wird. Man spricht insoweit auch von einer „gefahrenunabhängigen Risikovorsorge“[1].

Das Vorsorgeprinzip will bewirken, dass die Gesundheit des Menschen gesichert ist, die Leistungsfähigkeit des Naturhaushalts erhalten bleibt, Fortschritt und Produktivität langfristig gewährleistet sind, Schäden an Kultur- und Wirtschaftsgütern vermieden werden und die Vielfalt von Landschaft, Pflanzen und Tierwelt bewahrt wird. Es ist im primären Gemeinschaftsrecht verankert, Art. 191 AEUV, und kommt in vielen Planungsvorschriften zum Ausdruck. Ein Beispiel hierfür sind die §§ 13 ff. und 22 ff. des Bundesnaturschutzgesetzes. Es findet sich auch im Rahmen der Zweckbestimmungen vieler Umweltschutzgesetze wie § 1 Bundesimmissionsschutzgesetz und § 6 Wasserhaushaltsgesetz.

Inhalt des zweiten grundlegenden Prinzips, des sogenannten Kooperationsprinzips, ist es, eine möglichst einvernehmliche Verwirklichung umweltpolitischer Ziele zu erreichen. Es versteht sich als Verfahrensgrundsatz. Die am Umweltschutz beteiligten Stellen, insbesondere staatliche und gesellschaftliche Kräfte, sollen effektiv zusammenwirken, etwa in Form von gegenseitiger Information und Konsultation. Hierzu zählen zum Beispiel die Bürger, Umweltorganisationen, Wissenschaft, Wirtschaft, Gewerkschaften und Kirchen. Die Beteiligung soll zu sachkundigen Anregungen und zu einer Intensivierung der Umweltschutzanstrengungen und einer Stärkung des Umweltbewusstseins führen. Umgesetzt wird das Kooperationsprinzip zum Beispiel in Form einer Beteiligung der Bürger in der Planungsphase umweltbeeinträchtigender Vorhaben wie bei genehmigungsbedürftigen Anlagen nach dem Bundesimmissionsschutzgesetz. Umweltschutzverbände wirken in Planfeststellungsverfahren mit, die mit Eingriffen in Natur und Landschaft verbunden sind. Im Rahmen des Erlasses von Rechtsvorschriften sollen Vertreter von Wissenschaft, Wirtschaft und Behörden gehört werden. Die Ebenen im bundesstaatlichen Aufbau wirken beispielsweise in Form von Arbeitsgemeinschaften zusammen. Es werden freiwillige Vereinbarungen zwischen Landesregierungen und Wirtschaftsorganisationen geschlossen, Unternehmen nehmen an Umwelt-Audit-Verfahren teil.

Ziel des Kooperationsprinzips ist die Steigerung der Akzeptanz des Umweltrechts durch die breite Beteiligung aller gesellschaftlichen Kräfte. Manko im Rahmen der Verwirklichung ist das Ungleichgewicht der verschiedenen Interessengruppen, die wiederum durch Lobbytätigkeit ihre Interessen durchzusetzen versuchen.

Das Verursacherprinzip als drittes Prinzip schließlich will die Kosten zur Vermeidung, zur Beseitigung oder zum Ausgleich von Umweltbelastungen dem Verursacher zurechnen. Der Verursacher der Umweltbelastung trägt die sachliche und finanzielle Verantwortung für den Umweltschutz. Es soll eine volkswirtschaftlich sinnvolle und schonende Nutzung der Umwelt erreicht werden.

Das Prinzip hat damit zwei Aspekte zum Inhalt: Es dient auf der einen Seite der Zurechnung der materiellen Verantwortlichkeit. Es wird also bei der Frage virulent, wie die Behörde das ihr regelmäßig zustehende personelle Störerauswahlermessen ausübt bzw. wer Adressat von entsprechenden Geboten, Verboten und Auflagen ist. Auf der anderen Seite ist das Verursacherprinzip im Rahmen der Entscheidung über die Kostentragung relevant.

Am Verursacherprinzip orientieren sich z.B. umweltpolitische Maßnahmen wie Umweltabgaben (Abwasserabgabe), Umweltauflagen in Form von Verfahrens- oder Produktnormen und freiwillige Maßnahmen.

Problematisch im Rahmen der Anwendung des Verursacherprinzips sind regelmäßig Schwierigkeiten bei der Identifizierung des Verursachers. Viele Umweltbelastungen entstehen durch ein Zusammenwirken mehrerer Verursacher, von denen einige häufig rechtlich nicht zu belangen sind. Viele Umweltbeeinträchtigungen sind Folge allgemeiner Umweltverschmutzung als Folge umweltunverträglichen menschlichen Verhaltens und Wirtschaftens. Man spricht in derartigen Fällen von sogenannten Summationsschäden. Wenn das Verursacherprinzip aufgrund derartiger Schwierigkeiten nicht oder nicht vollständig durchgesetzt werden kann, kann das sogenannte Gemeinlastprinzip zum Tragen kommen. Die öffentliche Hand kommt für den Ausgleich der Umweltschäden, z.B. die Beseitigung von Altlasten, auf. Dies kann auch auf der Grundlage wirtschaftspolitischer Erwägungen wie der Sicherung von Arbeitsplätzen oder zur Beseitigung akuter Notstände, die anderweitig nicht schnell genug erreicht werden kann, geschehen. Eine mittelbare Anwendung ist darin zu sehen, wenn Bund und Länder umweltfreundliche Investitionen mit Beihilfen und Steuersubventionen unterstützen oder Gemeinden für die Benutzung ihrer Kanalisation keine kostendeckenden Gebühren erheben.

Eine Zwischenlösung zwischen Verursacher- und Gemeinlastprinzip stellt das Gruppenlastprinzip dar. Hiernach wird eine bestimmte Gruppe als Kollektiv potentieller Umweltverschmutzer als Verantwortliche herangezogen. Es kann für den Fall einer späteren Umweltschädigung ein Ausgleich dadurch erzielt werden, dass diese Gruppe vorab in einen Umweltfonds einzahlt, der später ausgeschüttet wird.

Ich komme nun zu den normativen Grundlagen, in denen sich das Verursacherprinzip niederschlägt. Zunächst werde ich auf völkerrechtliche und europarechtliche Bezüge eingehen, um danach das Verursacherprinzip als allgemeines Wertungskriterium darzustellen. Schließlich stelle ich Ihnen drei Beispiele vor, aus denen sich die verschiedenen Aspekte des Verursacherprinzips deutlich ergeben. Ich komme zunächst zu einigen völker- und europarechtlichen Aspekten.

Das Verursacherprinzip ist seit den 70er Jahren des letzten Jahrhunderts eine von der OECD anerkannte Leitlinie der Umweltpolitik. Es ist dort definiert als ein Instrument für die Allokation der Kosten, die sich bei Umweltverschmutzungen aus Vermeidungs- und Kontrollmaßnahmen ergeben. Im Jahr 1992 wurde das Verursacherprinzip in der Rio-Deklaration festgehalten. Das sogenannte „Polluter-Pays-Principle“ soll im Idealfall die Berücksichtigung aller sozialen Kosten im Preis eines Produkts bewirken. Es wird allerdings weltweit in sehr unterschiedlichem Maß durchgesetzt[2].

Europarechtlich ist das Verursacherprinzip in Art. 191 Abs. 2 AEUV verankert und wird von der Richtlinie 2004/35/EG des Europäischen Parlaments und des Rates vom 21. April 2004

über Umwelthaftung zur Vermeidung und Sanierung von Umweltschäden konkretisiert. Es ist wegen der Integrationsklausel des Art. 11 AEUV verfahrensmäßig abgesichert. In einer neueren Entscheidung des Europäischen Gerichtshofs, welcher passender Weise ein Fall aus unserem Gastgeberland Italien zugrunde lag, hat der Gerichtshof die Reichweite des Verursacherprinzips umrissen. In Italien hatte sich die Frage gestellt, ob europäische Regelungen der im nationalen Recht fehlenden Möglichkeit der Inanspruchnahme eines Eigentümers, der Umweltschäden nicht verursacht hat, entgegen stehen, wenn der Verursacher nicht ermittelt werden kann. Der Gerichtshof hat entschieden, dass sich Art. 191 Abs. 2 AEUV auf das Tätigwerden der Union beziehe. Deswegen könne er von den zuständigen Behörden nicht herangezogen werden, um bei Fehlen einer nationalen umweltpolitischen Regelung Vermeidungs- und Sanierungsmaßnahmen aufzuerlegen[3].

Ich komme nun zu der nationalen Reichweite des Verursacherprinzips. Es handelt sich bei dem Verursacherprinzip um ein Wertungsprinzip, dem keine allgemeingültigen näheren Kriterien zu entnehmen sind. Es wird erst durch verantwortungsbegründende Normen konkretisiert. Dies sind verursacherbezogene Vermeidungs-, Verminderungs- und Beseitigungspflichten als ordnungsrechtliches Instrumentarium sowie Kompensationsregelungen bis hin zu Umweltabgaben.

In den Entwürfen zu einem einheitlichen Umweltgesetzbuch ist versucht worden, eine einheitliche Legaldefinition des Verursacherprinzips zu formulieren: Danach ist derjenige, der eine Umweltbeeinträchtigung, eine Umweltgefahr oder ein Umweltrisiko verursacht, dafür verantwortlich. Ein anderer Entwurf hielt denjenigen für verantwortlich, der erhebliche nachteilige Einwirkungen, Gefahren oder Risiken für die Umwelt oder den Menschen verursacht. Verantwortlich war darüber hinaus danach der Eigentümer und Besitzer, wenn erhebliche nachteilige Einwirkungen oder Gefahren für die Umwelt oder den Menschen durch den Zustand von Sachen verursacht werden. Auch eine Kodifikation des Gemeinlastprinzips ist in den Entwürfen versucht worden. Danach ist die Allgemeinheit verantwortlich, wenn ein Verursacher oder sonstiger Verantwortlicher nicht vorhanden, nicht oder nicht rechtzeitig feststellbar oder seine Inanspruchnahme unbillig ist. Die Möglichkeit eines Rückgriffs war vorgesehen[4]. Die Entwürfe haben allerdings das Stadium eines Gesetzes nicht erreicht.

Aufgrund der Offenheit des Verursacherprinzips und der verschiedenen Ausgestaltung in den Rechtsgebieten des Umweltrechts habe ich Ihnen drei Beispiele herausgesucht, um die verschiedenen Aspekte des Verursacherprinzips, nämlich seine Systematik, die materiell-rechtliche Seite mit Blick auf die Verantwortlichkeit sowie den monetären Aspekt, darzustellen.

Um die Systematik zu verdeutlichen, in die sich das Verursacherprinzip einbettet, bietet sich die Darstellung eines Beispiels aus dem Naturschutzrecht an. Im Naturschutzrecht kommt das Verursacherprinzip insbesondere in §§ 13, 15 Bundesnaturschutzgesetz zum Tragen. Die Vorschriften verdeutlichen auch das Zusammenspiel mit anderen umweltrechtlichen Prinzipien. Die naturschutzrechtliche Eingriffsregelung folgt einer dreistufigen Systematik: Erhebliche Beeinträchtigungen von Natur und Landschaft sind auf der ersten Stufe vom Verursacher vorrangig zu vermeiden, vgl. § 13 Satz 1 BNatSchG. Dies ist eine einfachrechtliche Ausprägung des oben dargestellten Vorsorgeprinzips, aber auch des Verursacherprinzips, da sie sich an den Verursacher richtet. Nicht vermeidbare erhebliche Beeinträchtigungen sind auf der zweite Stufe durch Ausgleichs- oder Ersatzmaßnahmen, also auf dem Wege der Realkompensation oder, soweit dies nicht möglich ist, auf der dritten Stufe durch einen Ersatz in Geld zu kompensieren, vgl. § 13 Satz 2 BNatSchG. Einer Kompensation durch Ausgleichs- und Ersatzmaßnahmen auf der 2. Stufe kommt demnach Vorrang vor der Ersatzzahlung auf der dritten Stufe zu. Die Varianten der Ausgleichs- und Ersatzmaßnahmen stehen sich – entgegen eines ursprünglich vorgesehenen Vorrangs des Ausgleichs vor dem Ersatz – gleichrangig gegenüber. Es soll im Einzelfall entschieden werden, ob für die Ziele des Naturschutzes der unmittelbare räumliche Bezug zum Eingriffsort als Ausgleich oder der naturräumliche Bezug der Kompensation als Ersatz vorzugswürdig ist. Der Zusammenhang im Naturraum ist bei der Ersatzmaßnahme gelockert, während beim Ausgleich eine unmittelbare Nähe zum Eingriffsort besteht. Auch die nachrangige Verpflichtung zur Leistung einer Ersatzzahlung auf der dritten Stufe trifft den Verursacher.[5]

Um die materielle Seite des Verursacherprinzips mit Blick auf die Verantwortlichkeit zu beleuchten, bietet sich als Beispiel das Bodenschutzrecht an. Im Bodenschutzrecht stellen sich einige Probleme, die in direktem Zusammenhang mit dem Verursacherprinzip stehen. Eine auf § 10 Abs. 1 Satz 1 Bundesbodenschutzgesetz gestützte Anordnung verlangt die Verletzung einer bodenschutzrechtlichen Pflicht. Diese Pflichten sind in § 4 BBodSchG normiert, ein Beispiel ist die Sanierungspflicht in § 4 Abs. 3 BBodSchG. Sie knüpfen an die legal definierte „schädliche Bodenverändung“ an: Dies sind Beeinträchtigungen der Bodenfunktionen, die geeignet sind, Gefahren, erhebliche Nachteile oder erhebliche Belästigungen für den Einzelnen oder die Allgemeinheit herbeizuführen. Der Kreis der Sanierungspflichtigen ist abschließend in § 4 Abs. 3 und 6 BBodSchG geregelt. Liegen die dort normierten Voraussetzungen nicht vor, scheidet ein Rückgriff auf das allgemeine Gefahrenabwehrrecht aus.

In erster Linie kommt als Sanierungspflichtiger der Verursacher der schädlichen Bodenveränderung als Handlungsstörer in Betracht. Dies ist diejenige Person, die die letzte Handlung vor Eintritt der Gefahr vollzogen hat. Abgestellt wird mit Blick auf die Theorie der unmittelbaren Verursachung auf ein positives Tun oder ein Unterlassen. Es ist ein hinreichend enger Wirkungs- und Ursachenzusammenhang zwischen dem Überschreiten der Gefahrengrenze und dem Verhalten einer Person notwendig. Dieser muss es gerechtfertigt erscheinen lassen, die Pflichtigkeit dieser Person zu bejahen[6]. Zur unmittelbaren Kausalität kommen demnach normative Aspekte der Pflichtwidrigkeit und Risikozurechnung hinzu[7]. Auch der Gesamtrechtsnachfolger des Verursachers ist sanierungspflichtig. Dies ist z.B. im Rahmen der Erbfolge oder einer gesellschaftsrechtlichen Fusion denkbar. Daneben ist der Grundstückseigentümer als Zustandsstörer sanierungspflichtig, wenn er im Grundbuch eingetragen ist. Diesbezüglich wird allerdings weitgehend eine Beschränkung der Haftung auf den Wert des Grundstücks befürwortet. Der frühere Grundstückseigentümer kann ebenfalls sanierungspflichtig sein, hier wird von der sog. „Ewigkeitshaftung“ gesprochen. Dies ist dann der Fall, wenn das Eigentum nach dem 1. März 1999 übertragen wurde und ihm die Grundstücksbelastung bekannt war bzw. er sie hätte kennen müssen. Die Sanierungspflicht ist hingegen ausgeschlossen, wenn er seinerseits beim Grundstückserwerb in schutzwürdiger Weise auf die Belastungsfreiheit des Grundstücks vertraut hat. Eine Sanierungspflicht kann sich auch aus der Inhaberschaft der tatsächlichen Gewalt ergeben, dies betrifft z.B. Mieter oder Pächter. Darüber hinaus kommen Derelinquenten sowie Personen in Betracht, die aus handelsrechtlichem oder gesellschaftsrechtlichem Rechtsgrund für eine juristische Person einzustehen haben.

Kommen mehrere Personen als Sanierungspflichtige in Betracht, muss die Behörde auf Rechtsfolgenseite eine ermessensfehlerfreie personelle Auswahlentscheidung treffen. Sie muss den Sachverhalt umfassend insbesondere im Hinblick auf alle realistisch in Betracht kommenden Störer ermitteln. Anderenfalls sieht sie sich der Gefahr ausgesetzt, dass ihre Entscheidung wegen Ermessensunterschreitung aufgehoben wird. Umstritten ist, ob die Reihenfolge der Nennung in § 4 Abs. 3 BBodSchG auch eine Rangfolge der Verpflichtung beinhaltet. Danach könnte man davon ausgehen, dass der Handlungsstörer vor dem Zustandsstörer in Anspruch zu nehmen ist. Dies ist in der Gesetzesbegründung angedeutet, hat aber im Wortlaut keinen Niederschlag gefunden. Überwiegend wird deshalb auf den Grundsatz der Effektivität der Gefahrenabwehr abgestellt. Insoweit ist es auch nicht ermessensfehlerhaft, die Auswahlentscheidung an der persönlichen und finanziellen Leistungsfähigkeit zu orientieren[8]. Es gilt demnach auf Primärebene die Gleichrangigkeit der Verantwortung. Sollten hiernach unbillige Ergebnisse erzielt werden, kann dem auf sekundärrechtlicher Ebene entgegengewirkt werden. Sanierungspflichtige können auf diesem Weg untereinander Ausgleichsansprüche geltend machen.

Eine weitere normative Grundlage, die im Rahmen des Aspekts der materiellen Verantwortlichkeit nicht unerwähnt bleiben sollte, ist das Umweltschadensgesetz. Dieses ist in Umsetzung der Richtlinie 2004/35/EG in Deutschland erlassen worden. Es regelt die öffentlich-rechtliche Haftung und Verantwortlichkeit, also Ordnungsrecht, welches zum Einschreiten des Staates gegen den Verursacher von Umweltgefahren und Umweltschäden ermächtigt. Es findet Anwendung, soweit Rechtsvorschriften des Bundes oder der Länder die Vermeidung und Sanierung von Umweltschäden nicht näher bestimmen oder in ihren Anforderungen diesem Gesetz nicht entsprechen. Es gilt grundsätzlich für Umweltschäden und unmittelbare Gefahren solcher Schäden, die durch speziell aufgeführte berufliche Tätigkeiten verursacht werden und für Schädigungen von Arten und natürlichen Lebensräumen nach dem Bundesnaturschutzgesetz und unmittelbare Gefahren solcher Schäden, die durch andere berufliche Tätigkeiten speziell aufgeführten verursacht werden, sofern der Verantwortliche vorsätzlich oder fahrlässig gehandelt hat. Im Verhältnis zu anderen häufig spezielleren Vorschriften, insbesondere zum BBodSchG, zum BNatSchG und zum WHG dürfte der Anwendungsbereich des Umweltschadensgesetzes allerdings gering sein. Es ist im Verhältnis zum Fachrecht als allgemeiner Teil zu verstehen. Materiell sieht es vor, dass der Verantwortliche unverzüglich die erforderlichen Vermeidungsmaßnahmen zu ergreifen hat, wenn die unmittelbare Gefahr eines Umweltschadens besteht. Außerdem hat der Verantwortliche die erforderlichen Schadensbegrenzungsmaßnahmen vorzunehmen und die erforderlichen Sanierungsmaßnahmen zu ergreifen, wenn ein Umweltschaden eingetreten ist.

Mit Blick auf den monetären Aspekt des Verursacherprinzips findet dieses zum Beispiel seine Ausprägung in § 9 Abwasserabgabengesetz. Hiernach ist der Einleiter – mit anderen Worten der Verursacher – für das Einleiten von Abwasser in ein Gewässer verantwortlich und hat eine Abgabe zu entrichten. Die Höhe der Abgabe richtet sich nach der Schädlichkeit des Abwassers. Voraussetzung für das Einleiten von Abwässern bleibt aber die Inhaberschaft einer wasserrechtlichen Erlaubnis. Mit der Abgabe soll ein negativer finanzieller Anreiz zu gewässerschonendem Verhalten geschaffen werden. Außerdem soll die Kostenlast für die Vermeidung, die Beseitigung und den Ausgleich gerechter verteilt werden. Unter Berücksichtigung der Rechtsprechung des Bundesverfassungsgerichts wird die Abwasserabgabe von der überwiegenden Meinung als zulässige Sonderabgabe angesehen. Die Funktionsfähigkeit der Abgabe als Lenkungsabgabe wird allerdings durch zahlreiche Ausnahme- und Befreiungsmöglichkeiten und die zu geringe Abgabenhöhe gemindert. Darüber hinaus sind Indirekteinleiter, also private Haushalte und gewerbliche Einleiter, die an das Kanalisationssystem angeschlossen sind, nicht vom Abgabetatbestand erfasst.[9]

Mit Abschluss der Darstellung der Beispiele komme ich zum Schluss meiner Ausführungen in Form von kritischen Anmerkungen.

Das Vorgesagte belegt, dass das Verursacherprinzip als solches auf Grund seiner Offenheit ohne inhaltliche Konkretisierung nicht handhabbar ist. Es wird in seiner Reichweite auf eine „instrumentalistische“ Systemvariante verkürzt. Hiernach wird der Verursacher nicht allgemein für alle Schäden verantwortlich gemacht, sondern ihm wird nur das zugerechnet, was die staatliche Umweltpolitik mit Blick auf ihre jeweiligen Qualitätsziele für erforderlich hält.[10] Berechtigter Kritikpunkt im Rahmen der Anwendung des Verursacherprinzips ist deshalb die kostenlose Beanspruchung von Umweltgütern wie Luft und Wasser. Diese kann zu Umweltschäden führen, ohne dass sie sich beim Produzenten oder Konsumenten kostenmäßig auswirken. Dies wiederum bedingt eine übermäßige Inanspruchnahme kostenloser Umweltgüter und führt zu einem Mehr an Umweltbelastung, die letztlich ein Ansteigen der Kosten für den Umweltschutz verursacht.

Problematisch ist darüber hinaus das Spannungsverhältnis zwischen dem Verursacherprinzip als ordnungsrechtlichem Regulierungsinstrument und den Interessen eines freien Handels ohne Marktzugangsbarrieren. Diskutiert wird, welche Wettbewerbseffekte im Rahmen von Standortentscheidungen von unterschiedlichen nationalen Umweltpolitiken ausgehen können. Dies wird auch künftig beim Erlass entsprechender Vorschriften sicher eine große Rolle spielen.

Es wird auf absehbare Zeit schon aufgrund der Verschiedenheit der umweltpolitischen Vorstellungen in den einzelnen Ländern international bei einem Flickenteppich der Kodifizierung des Verursacherprinzips bleiben, auch wenn insoweit eine Vereinheitlichung sicherlich wünschenswert wäre. Aus nationaler Sicht dürfte ein weitergehender Gleichlauf der auf dem Verursacherprinzip beruhenden Normen in den einzelnen Teilgebieten des Umweltrechts eher erreichbar sein. Vielleicht leistet der Erlass des Umweltschadensgesetzes, welches in den bereits 10 Jahren seines Daseins bislang keine große Rolle in der Rechtsprechung gespielt hat, hier auf Dauer seinen Beitrag.

Ich danke Ihnen für Ihre Aufmerksamkeit.

[1] BVerwGE 72, 300 (314)
[2] Vgl. zum Verhältnis von Verursacherprinzip und WTO-Recht Umweltbundesamt, Verursacherprinzip, WTO-Recht und ausgewählte Instrumente der deutschen Energiepolitik.
[3] EuGH, Urteil vom 4. März 2015 – C-534/13 -, Juris.
[4] UGB-E, zitiert nach Hoppe/Beckmann/Kauch – Umweltrecht, 2. Aufl., 2000, § 1, Rn. 144 ff.
[5] Lüpkes, Ewer, BNatSchG, Kommentar, 2011, § 13, Rn. 1 ff., 15 ff.
[6] BVerwG, Beschluss vom 22. Februar 2016 – 7 B 36/15 -.
[7] OVG NRW, Beschluss vom 1. Oktober 1985 – 4 B 1434/84 -.
[8] Schmidt/Kahl, § 8, Rn. 28.
[9] Schmidt/Kahl, Umweltrecht, 9. Aufl. 2014, § 8, Rn. 15.
[10] Schmidt/Kahl, Umweltrecht, 9. Aufl. 2014, § 4, Rn. 24.

Dott.ssa Nadeschda Willkitzki (Giudice presso il TAR di Munster).

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